Una nuova agricoltura per un mondo più giusto e sostenibile

5-09-2024 | News

L’Italia con le sue caratteristiche di unicità, può essere un modello per molti Paesi

Di Luigi Consiglio, CEO di Eccellenze d’Impresa

Nutrire in modo sostenibile 9 miliardi di persone. È la sfida principale per la sopravvivenza dell’umanità, che non può che vedere tutti gli Stati unirsi per raggiungere un obiettivo comune, prima che sia troppo tardi. Perché, mentre la popolazione mondiale cresce ogni giorno di più – la soglia degli 8 miliardi di persone sulla Terra è stata superata alla fine del 2022 e quella dei 9 miliardi, secondo l’ONU e i modelli statistici più accreditati, verrà raggiunta nel 2037, fino a toccare la soglia dei 9,7 miliardi nel 2050 -, l’Earth Overshoot Day (il giorno nel quale l’umanità consuma interamente le risorse prodotte dal Pianeta nell’intero anno) si allontana ogni anno dal 31 dicembre: quest’anno cade il primo agosto. In questo quadro in continua evoluzione, ogni Stato ha un ruolo, che si inserisce idealmente in una grande strategia mondiale necessaria per poter imprimere un’accelerazione alle produzioni agricole, renderle più efficienti e più vicine alle richieste della popolazione. Perché, se è vero che siamo ancora lontani dall’eradicamento della povertà (in particolare in Africa), come era previsto dall’Agenda 2030 dell’Onu alla fine di questo decennio, negli ultimi anni sono stati fatti passi da gigante e le persone che vivono in condizioni di povertà estrema sono il 9,3% della popolazione della Terra, mentre nel 1990 erano il 38% (dati della Banca mondiale). E chi vede il proprio reddito incrementarsi vuole vivere come nei Paesi Occidentali, presi come riferimento per gli stili di vita e per l’alimentazione.

Outdoor farm work, harvesting, modern agribusiness and organic fruit for sale and juice production. Young guy and female in aprons carry boxes to red shining ripe apples in garden with green trees

È chiaro però che l’obiettivo non può essere perseguito con i modelli agricoli e dell’allevamento tradizionali. Per diversi motivi. Il primo: l’agricoltura è tra i maggiori responsabili del «global warming», emettendo più gas serra di auto, camion, treni e aerei considerati complessivamente, rilasciando ossido di azoto dai fertilizzanti. L’allevamento non è da meno, considerando le emissioni di metano e l’utilizzo di acqua (e l’inquinamento dell’«oro blu»). Inoltre, l’agricoltura estensiva è tra i maggiori responsabili della perdita della biodiversità, senza contare le emissioni di ossido di azoto generate dal taglio delle foreste pluviali per far spazio a allevamenti e campi da coltivare: una pratica da bloccare subito, perché i danni causati sono molto maggiori dei benefici. Quello che serve, al contrario, è aumentare la resa delle aziende agricole esistenti: se i campi statunitensi, canadesi e australiani sono estremamente produttivi, in Africa, America Latina e Est Europa c’è molta strada da fare. Ed è qui che si può intervenire in modo massiccio per rivoluzionare l’agricoltura mondiale e far sì che i 9 miliardi di persone che vivranno sulla Terra tra pochi anni possano sfamarsi in modo sano e sostenibile. Un ruolo che anche l’Italia può vivere da grande protagonista.

La chiave sta nel permettere a tutti di nutrirsi come nei Paesi Occidentali, assecondando la crescita delle richiesta di proteine sulle tavole di tutto il mondo. Ma non si può pensare di farlo con l’incremento del consumo di carne, per i motivi esplicitati in precedenza: aumentare la superficie e il numero degli allevamenti sarebbe assolutamente non sostenibile. L’unica alternativa è sviluppare un’offerta di proteine vegetali, utilizzando in modo massiccio quelle derivate dal grano, dalla soia, dalla carruba, dai piselli e in generale dai legumi, le cui proteine hanno un minor contenuto di grassi, un indice glicemico basso e danno un maggior senso di sazietà rispetto a quelle animali. Una sfida che unisce agricoltura e ricerca applicata, ma che al contempo deve guardare alla sua sostenibilità anche economica: non si può pensare di vendere prodotti a base di proteine vegetali vendendoli a prezzi uguali (se non maggiori) rispetto ai tagli di carne pregiati che provengono dagli allevamenti. Il mercato deve riuscire a proporre «finti polli» che costano poco, perché se è vero che il 90% della popolazione mondiale vive al di sopra della soglia di povertà estrema, lo è altrettanto che esistano ampi strati di povertà diffusa (anche in Occidente), con milioni di persone che faticano a far quadrare i conti e che non possono permettersi di spendere troppo per prodotti alternativi alla carne. L’agricoltura mondiale deve essere capace di unirsi, creando un sistema interrelato tra gli Stati, inseriti all’interno di una filiera internazionale che deve valorizzare le caratteristiche di ogni singolo Paese, inserito all’interno di un progetto organico non più rinviabile: le colture intensive, l’allevamento coerente, la produzione cerealicola vanno sempre considerati inseriti in questo contesto ineludibile per ogni governo e per ogni regolatore, rendendo impossibile l’arroccamento su posizioni autarchiche. L’incremento di valore nutrizionale richiesto da fasce crescenti della popolazione consente di ritagliare spazi per i Paesi in grado di generare prodotti con caratteristiche superiori e distintive, specializzando le colture in modo da favorire il reale valore aggiunto della zona in termini di vocazione o di biodiversità e implementando il ruolo della tecnologia nei campi ma anche aumentando la quota di agricoltura destinata all’alimentazione umana (oggi è il 55% del totale, il resto è destinato a mangimi e biofuel) e riducendo gli sprechi, dato che circa il 50% del cibo prodotto nel mondo viene sprecato prima di arrivare sulle tavole. E qui entra in gioco il ruolo dell’Italia, che deve guardare al proprio ruolo nel sistema complessivo in maniera strategica. Perché il nostro Paese ha caratteristiche di unicità. Pensiamo al pomodoro italiano, arrivato in Europa nel 1500 ma che ha un sapore e un profumo irraggiungibili nel resto del mondo. O alla farina di grano tenero, una delle meno tenaci al mondo, o ancora al basilico genovese DOP. Questi prodotti vanno valorizzati con una marchio riconoscibile sui mercati esteri, che sfrutti una notorietà costruita negli anni, reti di vendita, politiche promozionali e una logistica efficiente e che si rivolga ai mercati in crescita e sempre più alla ricerca di prodotti «premium». Secondo una recente ricerca di McKinsey, il mondo dei consumatori sta cambiando: i giovani tra i 18 e i 24 anni, soprattutto in Paesi emergenti (o già affermati) come India e Arabia Saudita, ma anche i loro genitori, i pensionati e gran parte della «classe media» sono disposti a spendere di più per prodotti riconoscibili e di qualità per determinate categorie di prodotti. Tra questi, spicca anche l’agroalimentare, settore in cui l’Italia può recitare una parte da protagonista, investendo nel benessere del Pianeta sotto tutti i punti di vista. Una strada che passa anche dalla conversione a «bio» di tutta la produzione agricola del Paese, un passaggio che – vista l’inferiore redditività dei campi italiani rispetto, ad esempio, a quelli del Nord America – costerebbe meno rispetto ai concorrenti. Se l’Italia assumesse questa caratteristica, riconoscibile in tutto il mondo, produttori e commercianti farebbero a gara per ottenere i suoi prodotti, con un notevole vantaggio competitivo. Ma è necessario che il governo aiuti finanziariamente questa conversione, in un patto con gli agricoltori e le associazioni che li rappresentano e per far sentire la propria voce in Europa che, a modesto avviso di chi scrive, conosce benissimo le esigenze degli agricoltori del Nord del Vecchio Continente ma potrebbe conoscere meglio quelle del settore primario italiano.

Condividi questo contenuto su: