Enrico Giovannini: sviluppo sostenibile, il costo (non sostenibile) dell’inazione

2-07-2020 | In evidenza in HP, Studio

In un mondo sempre più preoccupato per tensioni politiche, prospettive economiche e disastri ambientali sembra mancare una volontà comune per affrontare le sfide globali. In particolare, sul tema dei cambiamenti climatici, malgrado i segnali di pericolo, le risposte collettive restano inadeguate. Ma cambiare, per quanto costoso, è possibile. Enrico Giovannini ha fondato nel 2016 l’Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile, di cui è portavoce.
Enrico Giovannini

A cinque anni dalla firma, da parte dei 193 Paesi delle Nazioni Unite, dell’Agenda 2030 e dei 17 Obiettivi di sviluppo sostenibile (Sustainable Development Goals, SDGs nell’acronimo inglese), sembra consolidarsi, in tutto il mondo, la consapevolezza della necessità di adottare un approccio integrato per affrontare le complesse questioni economiche, sociali, ambientali e istituzionali necessarie per realizzare la transizione verso un modello di sviluppo sostenibile. A fronte di questa maggiore consapevolezza delle opinioni pubbliche, il mondo mostra significativi segnali di avanzamento sul piano economico e su alcuni aspetti sociali, ma anche un preoccupante deterioramento della situazione ambientale e di alcune dinamiche sociali e politiche, puntualmente evidenziate dai sempre più numerosi rapporti delle organizzazioni internazionali e dei centri di ricerca.

Proprio la ricchezza e la molteplicità dei rapporti elaborati e la quantità di iniziative globali per transitare a uno sviluppo sostenibile in un’ottica globale confermano l’attenzione senza precedenti che viene posta sull’attuazione dell’Agenda 2030 da parte di organizzazioni della società civile, imprese, intermediari finanziari, amministrazioni e comunità locali. Basti ricordare, a titolo esemplificativo, la mobilitazione dei giovani dei Fridays For Future orientata a sollecitare un’azione più incisiva nella lotta ai cambiamenti climatici per comprendere quanto le nuove generazioni, ma non solo, mostrino un interesse profondo per la questione dello sviluppo sostenibile.

La consapevolezza dei rischi globali derivanti dall’insostenibilità dell’attuale modello di sviluppo emerge chiaramente dal Global Risks Report 2019 del World Economic Forum, il quale si apre con queste parole: “Il mondo come un sonnambulo verso la crisi? I rischi globali stanno aumentando ma manca la volontà collettiva di affrontarli”. Realizzato sulla base di un sondaggio che ha coinvolto quasi mille tra decisori politici pubblici, privati, accademici e della società civile, il Rapporto descrive un mondo sempre più preoccupato per le tensioni politiche, per la situazione macroeconomica e per i disastri ambientali; un mondo che sa perfettamente di andare alla deriva ed è consapevole del fatto che manca la volontà comune per affrontare le sfide globali. Per molte persone intervistate, viviamo in un mondo sempre più ansioso, infelice e solitario. La rabbia aumenta e l’empatia sembra in declino. I rischi ambientali continuano a dominare i risultati del Global Risks Report: le condizioni meteorologiche estreme rappresentano il rischio di maggiore preoccupazione, ma molti degli intervistati sono sempre più preoccupati per il fallimento della politica ambientale a livello globale.

In tale quadro torna a far discutere il tema demografico. La popolazione mondiale, che fino al 1820 è rimasta sotto il miliardo di persone, continua a crescere rapidamente, come evidenziano i Population prospects 2019 dell’ONU. Secondo l’ipotesi più attendibile, la popolazione mondiale passerà dai 7,7 miliardi di quest’anno a 8,5 miliardi nel 2030, per poi crescere a 9,7 miliardi nel 2050 e a 10,9 miliardi nel 2100. Ovviamente, le dinamiche della popolazione saranno molto diverse da una regione all’altra: l’Europa passerà dagli attuali 748 milioni a 710 nel 2050, mentre l’Africa quasi raddoppierà, da 1,3 a 2,3 miliardi, con un aumento ancora più marcato negli Stati sub-sahariani. Più della metà dell’incremento demografico da oggi al 2050 avverrà in nove Paesi: India, Nigeria, Pakistan, Repubblica democratica del Congo, Etiopia, Tanzania, Indonesia, Egitto e Stati Uniti. Tra il 2010 e il 2020 14 Paesi del mondo hanno ricevuto più di un milione di migranti e altri 10 hanno ceduto ad altri oltre un milione di persone. Tra i Paesi destinati a ricevere in futuro un afflusso netto di migranti il Rapporto cita, nell’ordine, Bielorussia, Estonia, Germania, Ungheria, Italia, Giappone, Russia, Serbia e Ucraina. 

Sul tema dei cambiamenti climatici si moltiplicano i segnali di pericolo e di inadeguatezza delle risposte collettive. Il più recente è stato l’ulteriore anticipo dell’Earth Overshoot Day, il giorno  in cui il mondo ha consumato tutte le risorse prodotte dal Pianeta in quello stesso anno, fissato nel 2019 al 29 luglio (l’anno scorso era il 1° agosto, nel 2000 il giorno cadeva a metà settembre). Nel complesso, in un anno vengono mediamente consumate le risorse di 1,7 pianeti, ma se tutti consumassero come gli statunitensi ci vorrebbero 5 pianeti, 3 se il mondo avesse lo stile di vita dei tedeschi, 2,7 se il modello fosse l’Italia. 

Gli scienziati segnalano anche che i cambiamenti climatici stanno avvenendo più rapidamente di quanto immaginato. Il recente Rapporto “Cambiamento climatico e territorio”, presentato dall’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC) evidenzia le conseguenze drammatiche del cambiamento climatico su fame e migrazioni. Il riscaldamento globale provocherà la desertificazione di porzioni sempre maggiori di terra, soprattutto nelle regioni più povere, in particolare Africa, Medio Oriente, Asia e America latina. La conseguenza sarà un inevitabile aumento delle migrazioni, all’interno degli stessi Paesi e oltre le frontiere: i “migranti economici” saranno sempre più anche “migranti climatici”, con il potenziale esacerbarsi di conflitti e tensioni di carattere sociale, culturale e politico.

L’IPCC stima anche che, dall’età preindustriale, le attività umane abbiano causato approssimativamente 1 grado di riscaldamento globale, il quale è probabile che raggiunga 1,5°C fra il 2030 e il 2052, se continua ad aumentare al tasso corrente. Secondo l’IPCC, se oggi si cominciasse a ridurre drasticamente le emissioni e ad assorbire la CO2 presente nell’atmosfera, si potrebbe mantenere il riscaldamento entro 1,5 gradi (l’obiettivo più ambizioso dell’Accordo di Parigi), in quanto le emissioni del passato da sole non provocherebbero il superamento di questa soglia. Al contrario, in assenza di provvedimenti immediati e drastici, c’è il rischio che in appena 12 anni questo livello possa salire a 2°C, causando danni irreversibili all’ambiente e alla nostra salute, con gravi ripercussioni anche su povertà e disuguaglianze. Su questi punti si veda il Rapporto Macrotrends 2019-2020 di Harvard Business Review Italia, “Out of Balance: rottura e ricomposizione degli equilibri”. Dunque, i prossimi dieci anni saranno cruciali nel determinare che tipo di mondo esisterà nei decenni a venire. “Se si agisce con decisione, innovazione e investimenti di qualità – conclude l’IPCC – si può evitare che avvenga il peggior cambiamento climatico che conosciamo, e si raggiungerebbero così anche gli SDGs. Se non lo faremo, andremo incontro a un mondo in cui sarà sempre più difficile prosperare per noi e le future generazioni”.

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