Analizzare il rischio politico per prendere migliori decisioni

23-05-2023 | News

Certo, per un’impresa non è un obbligo, ma in tempi incerti come questi può essere molto consigliabile

di Marco Valigi

Foto di Marco Oriolesi su Unsplash

Meno di un anno fa il termine geopolitica e quello di impresa andavano a braccetto. Erano i primi mesi dell’offensiva russa in Ucraina e pareva che nessun CEO che si rispettasse potesse guidare un’impresa senza fare considerazioni geopolitiche, né ci fosse produzione esente da quel tipo di condizionamenti. I riferimenti, vaghi in genere, facevano parte di un paradigma di comunicazione, probabilmente, più che di una strategia d’impresa che includesse in maniera sostantiva l’analisi politica. L’obiettivo immediato, del resto, sembrava apparire al passo con i tempi ed essere in grado di comprendere le macro dinamiche che muovono un sistema globalizzato, traguardando il futuro là dove lo sguardo dei non leader non arrivava. Ciò che in una narrativa eroica ci si aspetterebbe da individui dalle cui decisioni dipendono produzioni, marchi e la redditività delle famiglie di collaboratori e fornitori, insomma. L’epoca nella quale ci troviamo, tuttavia, è altra e di eroico, nel mondo dell’impresa, vi è poco. Come per ogni moda che si rispetti, del resto, ricorrere al termine geopolitica, oggi, non genera più alcuna eco.

Utilizzare termini inclusivi come geopolitica, libero mercato o finanza – concetti che se non specificati e calati con rigore in un contesto macroeconomico e organizzativo diventano evanescenti – non genera valore, infatti. E ciò che non è in grado di produrre valore, in impresa, va accantonato. Tuttavia, appurato che chiamare in causa certi strumenti in maniera superficiale o sull’onda di alcune tendenze della comunicazione non sia una scelta azzeccata, sbarazzarsene in modo sbrigativo può costituire un errore costoso. Prima di accantonare l’analisi politica sino alla prossima guerra, crollo di regime o crisi sistemica che, in men che non si dica, bruceranno profitti e occupazione, facendo “saltare” contestualmente un cospicuo numero di AD, dunque, perché non prendersi il tempo per qualche altra domanda? Il tipo di risposte, del resto, scaturiscono proprio dai quesiti che ci poniamo.

In primo luogo, qualsiasi impresa ha bisogno di fare analisi politica o di un’analista politico al suo interno? La risposta è no. Una public company internazionalizzata, caratterizzata da una supply-chain articolata su più Paesi e la cui distribuzione, infine, dipende da logistiche complesse difficilmente potrà prescindere dalla figura di un chief geopolitical officer, oppure dalla consulenza di analisti politici esterni. Di contro, una realtà padronale o ad azionariato concentrato che utilizza materie prime locali nel quadro di una filiera corta e con una distribuzione limitata alla propria regione o al territorio nazionale, dell’analisi geopolitica non saprebbe che farsene. Nel variegato mondo delle imprese e nel complesso contesto post-globalizzato, però, quanti saranno i casi riconducibili a due tipi – entrambi estremi nella loro coerenza – di attore economico appena descritti? Probabilmente, una quota minoritaria. A prevalere, piuttosto, tenderanno a essere casi complessi o articolati rispetto ai quali stabilire se il ricorso a strumenti volti ad analizzare il rischio politico costituirà una fonte di valore non sarà immediato. Per stabilire se un analista politico potrà fare al caso della vostra impresa, quindi, andrà esaminata la struttura della supply-chain.

Rivolgersi a fornitori nazionali, sul piano della neutralizzazione degli effetti negativi legati al rischio politico, non significa che la filiera – quindi le produzioni finali – siano realmente in sicurezza. La ricerca di margini più elevati nonché la disponibilità di notevoli interconnessioni con costi delle logistiche ridotti rispetto al passato, infatti, potrebbero determinare, in ragione di una serie di rischi politici occultati dalla complessità della filiera, un quadro di business non sostenibile, senza tuttavia che i vertici aziendali ne abbiano consapevolezza sinché non eromperà un crisi. A quel punto, tuttavia, sarà tardi. Una prima conclusione, dunque, è che benché taluni mercati e strutture societarie presuppongano analisi di natura geopolitica, in un contesto disomogeneo come quello dei mercati post-globalizzati del XXI secolo a dettare legge è soprattutto la supply-chain. Maggiore è la complessità di quest’ultima, maggiore sarà il valore – quindi il vantaggio competitivo che ne deriverà – di una corretta applicazione di quegli strumenti al business.

Fatta eccezione per gli addetti ai lavori, però, a oggi il valore dell’analisi politica emergere – e spesso neppure nitidamente – solo in occasione di eventi critici e solo come strumento di tutela rispetto a possibili perdite. Riduttivo, no? Trattata alla stregua di un ombrello o di un paracadute, infatti, essa non potrà generare valore. Quale strumento di pianificazione e correzione, usato come mezzo di protezione rispetto a una minaccia non più potenziale ma attuale, ne sarebbe capace, però? Nessuno, probabilmente.

Non diversamente da quanto accadeva circa un decennio fa riguardo a questioni come tutela dell’ambiente, dei lavoratori o equilibrio di genere/inclusione, tenere in adeguata considerazione il contesto politico nel costruire il proprio modello di business appare ancora come un costo (evitabile). Fatte salve alcune evidenti differenze tra quei casi e l’analisi politica, quali elementi hanno veicolato un cambiamento di approccio, rendendo quelle materie una fonte (sul piano etico già lo erano) di valore? La combinazione di due fattori: uno normativo e l’altro reputazionale.

L’intervento del legislatore o di eventuali autorità regolatrici ha, infatti, stabilito dei doveri per le imprese. La reputazione – sulla quale vi è consenso rispetto alla capacità di produrre utili – ha fatto leva sulla natura competitiva delle imprese, invece, favorendo che quei temi entrassero a far parte dei vari modelli di business. La compliance, nel processo, è entrata in gioco, ma fino a un certo punto. Pensate alle imprese energetiche – un caso semplice. Non sono multe e sanzioni ad averle fatte diventare più virtuose rispetto agli anni Settanta, ma il fatto che l’impatto di una cattiva reputazione non è individuale e immediato (meno utili o passivi a causa delle sanzioni), ma riguarda la relazione con azionisti, competitor e clienti, dunque sarà strutturale e riguarderà il futuro dell’azienda stessa. La cattiva reputazione riduce il valore intrinseco di un’organizzazione e colpisce le sue aspettative di autoconservarsi. E il bene primario di qualunque individuo o gruppo, imprese incluse, è proprio l’autoconservazione, soprattutto quando lo scenario è incerto come oggigiorno.

In conclusione, allorché una fonte normativa o regolatoria autorevole (Commissione Europea, Stati, Consob, Borsa Italiana o altro, poco importa) stabilirà per certi tipi di azienda e settori quale requisito necessario dei piani aziendali la presenza di un capitolo sulla sostenibilità politica, la competizione per la reputazione, probabilmente, trasformerà quel tipo di strumento analitico in una fonte formalmente riconosciuta di valore. Sino ad allora, nuotare in un oceano blu senza per forza dover stravolgere il proprio modello aziendale sarà un rischio – o un lusso, forse – per le imprese che sapranno assumersi l’onere di sottoporre a un’analisi sostantiva e schietta la struttura della loro supply-chain, ricorrendo agli strumenti dell’analisi politica come correttivi rispetto a falle magari non evidenti, ma non incapaci di minacciare la sostenibilità del loro business.

Marco Valigi, ESCP Business School e Partner Governance Advisors.

Condividi questo contenuto su: