I carburanti alternativi salverebbero i motori a combustione interna oltre il 2035, ma con grandi limiti, come mostra un recente articolo di Ivan Manzi su Futura Network
La scelta della Commissione europea di rinviare il voto sul divieto di produrre nuove auto che impattano sulla crisi climatica dal 2035 ha provocato, specie in Italia, molte polemiche e molta confusione. Un interessante articolo di Ivan Manzo su Futura Network prova a fare chiarezza sul tema.
Il primo punto è che la messa al bando delle auto a motore endotermico non riguarda la circolazione delle vetture convenzionali né il mercato dell’usato. L’Ue vuole far immatricolare dal 2035 solo veicoli in grado di non produrre alcuna emissione di CO2 per contrastare l’effetto serra. Inoltre, per chi produce meno di mille veicoli l’anno è prevista una esenzione dalla legge. L’entrata in vigore del regolamento, che potrà comunque essere rivisto entro il 2026, è comunque soggetta all’approvazione da parte del Consiglio dell’Unione europea dove l’Italia e altri Paesi europei (Polonia, Bulgaria e Germania) hanno rimesso tutto in discussione.
Il regolamento, ricorda Manzi, rientra nel più ampio pacchetto Fit for 55 per abbattere del 55% le emissioni gas serra entro il 2030 rispetto ai livelli del 1990, che a sua volta fa parte del Green New Deal per arrivare alla neutralità carbonica al 2050. Né il testo chiude totalmente la porta alle auto a benzina, diesel e ibride poiché a essere messi al bando saranno i motori che dal primo gennaio 2035 non risulteranno carbon neutral. Non c’è dunque un obbligo di produrre e vendere solo auto elettriche, a patto che si trovino soluzioni a impatto zero per gli altri veicoli. Da qui il motivo per cui si parla di “alternative” all’elettrico, date per esempio da “e-Fuels”, “biocarburanti” e “idrogeno”.
I biocarburanti
L’analisi di Manzo è puntuale: ci sono biocombustibili, meglio conosciuti come biocarburanti, di prima generazione e di seconda generazione e sono ottenuti con processi di trasformazione differenti e hanno una caratteristica particolarmente apprezzata da chi oggi si oppone al bando: sono utilizzabili dalle auto con motore endotermico. Tra quelli di prima generazione ci sono il bioetanolo e il biodiesel, in grado di alimentare i veicoli se utilizzati interamente o miscelati ad altri combustibili fossili. Oggi, la maggiore produzione di bioetanolo viene fatta negli Stati uniti, dove lo si ricava prevalentemente dal mais, e in Brasile, dalla canna da zucchero. La stragrande produzione di biodiesel arriva invece dall’Indonesia attraverso l’uso dell’olio di palma, e da Stati Uniti e Brasile, oltre che dall’Europa, ricavato da altri oli vegetali come colza e girasole.
Ci troviamo, però, di fronte a una soluzione lontana dalla sostenibilità. Gli alti consumi energetici nelle fasi iniziali della filiera (semina, fertilizzazione, irrigazione, raccolta, trasporto, produzione) sembrano infatti vanificare l’effettivo risparmio di CO2. Addirittura, analizzando l’intero ciclo di vita della produzione di biocarburanti di prima generazione si vede che la quantità di CO2 emessa è maggiore rispetto a diesel e benzina. Avendo sempre chiaro l’obiettivo, e cioè la decarbonizzazione del settore, quella dei biocarburanti di prima generazione sembra dunque una opzione da scartare, ancor più se confrontata alla mobilità elettrica.
I biocarburanti di seconda generazione vengono invece prodotti a partire da rifiuti e materiali di scarto, quali oli alimentari, grassi di animali, residui agricoli, e registrano prestazioni migliori per le emissioni di gas serra ma con due chiari limiti: un costo piuttosto alto nella fase di produzione; e la dipendenza dagli scarti. L’offerta è quindi influenzata dalla disponibilità di materie prime seconde, un vincolo che se calato nel contesto italiano, dove attualmente circolano quasi 40 milioni di automobili, appare ancor più marcato.
E-Fuels e idrogeno
Di pari passo, ricorda Manzi, cresce il dibattito anche sugli e-Fuels. Si tratta di biocombustibili sintetici (o idrocarburi sintetici) in grado di alimentare il motore tradizionale, che possono essere ottenuti allo stato liquido o gassoso a partire da idrogeno e da carbonio. A differenza dei biocarburanti di prima generazione la produzione di e-Fuels può essere sostenibile a patto che sia fatta da idrogeno verde ricavato attraverso l’elettrolisi dell’acqua e che l’energia impiegata nel processo sia rinnovabile (in modo da abbattere le emissioni di gas serra generate durante l’intero ciclo di vita). Solo così, dunque, l’idrogeno può essere definito “verde”. Allo stato attuale l’idrogeno viene però ottenuto in tutt’altro modo, basti pensare che nel 2020 la produzione a livello mondiale di idrogeno proveniva quasi totalmente da fonti fossili, in particolare dal gas (3/4 del totale), e dal carbone.
Anche la disponibilità di carbonio per produrre e-Fuels ha le sue difficoltà. In questo caso il carbonio per essere sostenibile deve essere di origine biogenica, e cioè rinnovabile. La fonte più abbondante da dove ricavare il carbonio in questione è però la CO2 derivante dal settore dei combustibili fossili, dove risulta impossibile azzerare le emissioni di gas serra (essendo il comparto maggiormente responsabile della crisi climatica) e dove per “catturare anidride carbonica” bisogna utilizzare grandi quantità di energia che in questo momento rendono l’operazione inefficiente ai fini del processo di decarbonizzazione ed economicamente sconveniente (oggi il costo di un litro di e-Fuel si aggira intorno ai 20 euro). Possiamo inoltre ottenere e-Fuel da carbonio anche da rifiuti organici, ma in questo caso bisognerebbe scegliere se utilizzarli per fare biogas, biometano o e-Fuel, una scelta che penalizza e delimita l’ampiezza dell’offerta; e da biomassa, condividendo gli stessi difetti dei biocarburanti di prima generazione.
In sostanza, per via di una serie di “barriere significative”, tra cui un uso molto più intenso d’energia per ottenere lo stesso risultato rispetto all’elettrificazione diretta, gli e-Fuels sono destinati ad avere un ruolo marginale nel processo di transizione dei trasporti leggeri. Andrebbero pertanto orientati a comparti diversi dove possono essere utili svolgendo un ruolo rilevante, come nel settore aereo.
Oltre alla possibilità di ricavare idrogeno per e-Fuels, è allo studio anche la possibilità di un utilizzo diretto dell’idrogeno. Come detto precedentemente, per essere sostenibile l‘idrogeno deve essere totalmente prodotto da fonti rinnovabili. Si tratta di un aspetto non banale dato che preconfigura un passaggio in più rispetto all’elettrificazione diretta e che, per questo motivo, rende la soluzione molto meno efficiente in termini di consumo energetico. Inoltre, l’idrogeno necessita dello sviluppo di un nuovo sistema di distribuzione dedicato. I metanodotti oggi a disposizione, spesso tirati in ballo nel dibattito, non sono infatti adeguati al trasporto di un elemento che sfugge, per esempio, a materiali, valvole, e meccanismi di compressione usati nel settore.
L’elettrificazione
Dopo circa un secolo di sviluppo e contraddizioni, i prossimi anni potrebbero decretare la morte del motore tradizionale. Sebbene migliorato nel corso del tempo in termini di emissioni inquinanti e climalteranti, il processo di combustione che avviene all’interno resta e resterà sempre un problema per la salute delle persone e per il Pianetae né gli e-Fuels né i biocarburanti cambierebbero questa situazione. Lo può però fare l’auto elettrica, che è in grado di alimentarsi senza produrre inquinanti atmosferici e CO2 in loco. È vero, la mobilità elettrica deve essere alimentata da un’energia ancora in parte condizionata dai combustibili fossili, ma è altrettanto vero che questa energia sarà sempre più rinnovabile.
Anche sui consumi l’elettrico prevale. Un motore a combustione interna è infatti poco efficiente: spreca il 70-80% dell’energia contenuta nel combustibile. In pratica, spiega l’articolo di Manzi, su 100 euro di carburante circa 70-80 euro vengono buttati in calore di scarto e solo i restanti 20-30 euro sono utilizzati ai fini della trazione, mentre per l’auto elettrica l’efficienza è all’80%, esattamente il contrario.
Occorre ricordare che nonostante l’efficienza premi la scelta dell’elettrico, c’è ancora tanta strada da fare per renderla accessibile a milioni di persone. Come per le auto tradizionali, i veicoli elettrici devono risolvere diversi problemi relativi alla componentistica e alla dipendenza di materie prime dall’estero. Su tutti c’è in questo momento la preoccupazione legata alle batterie. C’è poi la questione legata alle infrastrutture. A fine 2021 in Italia si contavano circa 26 mila punti di ricarica pubblica e 24 mila sistemi di ricarica privati. Come evidenzia il rapporto dell’ex ministero delle Infrastrutture e della mobilità sostenibili, se volessimo soddisfare gli obiettivi del Fit for 55% bisognerebbe investire da qui al 2030 almeno tre miliardi di euro per creare almeno 3,6 milioni di punti di ricarica privati e 31 mila e 850 punti di ricarica pubblica (come si vede nella seguente tabella). Insomma, è la conclusione di Manzi, parliamo di obiettivi che richiedono un grosso sforzo sistemico che, per essere realizzati, necessitano di un adeguato sostegno politico, culturale e informativo.