Nel metaverso un nuovo concetto di spazio e di tempo

15-03-2023 | News

È difficile comprendere e valutare oggi gli impatti sul nostro sistema percettivo e psichico delle nuove opportunità del metaverso. Ma di sicuro saranno rilevanti e trasformativi.

di Andrea Granelli

Pochi forse lo ricordano, ma il termine “metaverso” è stato coniato da Neal Stephenson nel romanzo cyberpunk Snow crash (1992) per indicare uno spazio tridimensionale all’interno del quale delle persone fisiche possono muoversi, condividere e interagire attraverso avatar personalizzati. La sua descrizione richiama un gigantesco sistema operativo la cui regolazione è affidata a degli spiriti – forse dovremmo chiamarli daimon – che agiscono senza essere visti e a cui gli utenti si connettono trasformandosi a loro volta in software per meglio interagire con il sistema e fra di loro. In questo modo gli avatar possono avere una vita (elettronica) autonoma… o meglio apparentemente autonoma in quanto dipendono sempre dalle risorse, ossia il tempo e le priorità che il sistema operativo concede loro.

Per chi non avesse familiarità con il termine digitale avatar, esso deriva (incredibilmente) dal sanscrito dove indica l’epifania del divino e cioè le forme e maschere con cui le divinità brahmane e indù indiane decidevano di rendersi visibili agli umani sulla Terra. La loro incarnazione, dunque, che nel caso del dio Visnù raggiungeva 10 forme. Nel linguaggio contemporaneo ha quindi assunto il significato di icona o maschera scelta dall’utente per apparire – e quindi essere visto – all’interno di una realtà virtuale.

Il primo film che si è cimentato nella descrizione della realtà virtuale fu un cartone animato prodotto da Walt Disney nel 1982 – Tron – diretto dal regista Steven Lisberger. Film bellissimo, quasi poetico, riuscì a dare una rappresentazione visiva molto efficace di questa realtà. I risultati commerciali furono però deludenti, con incassi molto inferiori alle attese. Ma l’interesse per il fenomeno era oramai evidente, tant’è che la stessa Disney ne fece una nuova versione – Tron Legacy – nel 2010; film più moderno e hi-tech, ma molto meno poetico e incisivo.

La parola metaverso ha avuto grande risonanza mediatica nell’ottobre 2021, quando Zuckerberg ha annunciato il cambiamento del nome dell’azienda da lui fondata – proprietaria di piattaforme quali Facebook, Instagram e WhatsApp – in Meta Platforms, Inc. Una svolta radicale per il social network, vista la decisione di investire oltre 5 miliardi di dollari per sviluppare una vera e propria economia basata su pubblicità, compravendita di oggetti digitali virtuali e la possibilità – attraverso gli avatar – di entrare in un mondo che consenta di vivere esperienze virtuali in prima persona.

Anche il logo, che a un primo sguardo richiama l’infinito, ci fa venire in mente il nastro di Moebius dove Escher faceva passeggiare senza soluzione di continuità alcune inquietanti formiche rosse. Ma questo logo, apparentemente semplice, è nato dalla creatività delle migliori teste pubblicitarie su piazza e vuole certamente veicolare anche messaggi subliminali. Il primo che viene in mente è che ricorda una maschera, e più propriamente una maschera rovesciata (come per esempio quella di Diabolik); maschera che può integrare occhiali o visori. D’altra parte, l’obiettivo di Meta è proprio diventare costruttore di metaversi e una parte del suo piano è migliorare le prestazioni del visore Oculus facendolo evolvere in un paio di occhiali agili e leggeri che consentano – quando indossati nel nuovo mondo virtuale – di vivere un senso di presenza quasi reale e senza limiti.

Le premesse per il successo del metaverso oramai ci sono tutte. Una recente ricerca condotta da Wunderman Thompson mette in luce due aspetti importanti: il 76% degli intervistati afferma che la loro vita quotidiana dipende sempre di più dalla tecnologia digitale e addirittura l’81% pensa che la presenza digitale di un brand sia importante quanto la sua presenza nei negozi fisici.

L’aspetto luccicante del metaverso e le fragilità umane

Ma la questione principale rispetto al futuro del metaverso non è solo se avrà successo. Prendiamo, ad esempio, una descrizione più vivida e partecipata del metaverso: «Questo luogo non somiglia a nessun altro Paese del mondo. La sua popolazione è tutta composta di ragazzi. I più vecchi hanno 14 anni: i più giovani ne hanno 8 appena. Nelle strade, un’allegria, un chiasso, che ti attrae e ti stimola! Gruppi di giovani dappertutto: chi gioca, chi interagisce, chi comunica, […] altri, con i loro avatar, fanno cose impossibili agli umani: chi recita, chi canta, chi fa esercizi spericolati, chi lotta […]».

Forse a qualcuno questo brano sembra familiare, e infatti deve esserlo. Con alcune piccole modifiche e sostituzioni ho utilizzato la descrizione che Carlo Collodi fa – nel suo Le avventure di Pinocchio (capitolo XXXI) – del “Paese dei balocchi”, un luogo immaginario e meraviglioso, dove tutti sono o diventano rapidamente amici, dove si trovano mille occasioni per passare il tempo a divertirsi, dove si possono fare le cose più spericolate senza nulla rischiare e dove le nostre debolezze, fragilità e mancanze scompaiono come per incanto.

Questo ritengo sia il punto nodale su cui riflettere del futuro del metaverso. Sherry Turkle, docente al MIT e una delle maggiori esperte di impatti psicologici del digitale, chiarisce in modo puntuale il tema nel suo libroAlone together: «La tecnologia è seducente quando i suoi richiami incontrano la nostra umana vulnerabilità». Fragilità che viene trasformata – come forma di difesa – in neutralizzazione del timore e conseguente crescita della volontà di controllo e supremazia. Anche Jacques Ellul nota, nel suo Il sistema tecnico, questo fenomeno osservando che «ciò che sembra caratterizzare più profondamente l’uomo che vive nell’ambiente tecnico è la crescita della volontà di potenza».

E quali sono allora le possibili conseguenze? Che ciò che pensiamo ci rafforzi, nei fatti ci indebolisce ancora di più. Questa fu la delusione e sofferenza del Pinocchio di Collodi e questo ci ricorda John Maeda – per molti anni co-presidente del MIT Media Lab di Boston – nel suo Le leggi della semplicità: «ciò che ho imparato dal lavoro di Ivan Illich è che la tecnologia, pur essendo un fantastico mezzo per conferire abilità, può essere allo stesso tempo un esasperante mezzo per mutilare».

Dietro l’utopismo di un mondo migliore dove sono tutti amici, si cela infatti un pensiero profondamente distopico: il mondo reale è cattivo e fuori controllo, rifuggiamoci allora in un paradiso artificiale dove siamo riconosciuti, apprezzati e siamo noi a dettare le regole. Ritorna, mai sopita, la pulsione infantile di onnipotenza dove tutto è controllato. Questo meccanismo è evidente nelle parole di Chris Cox, responsabile capo prodotto di Meta: «Sono tutti sono esausti delle videoconferenze. Non sai chi sta guardando chi, tutti si interrompono costantemente a vicenda». Questa tecnologia, sostiene, è un’ottima alternativa alle riunioni e gli incontri organizzati fra avatar saranno di gran lunga migliori. Come se la responsabilità di una cattiva riunione fosse imputabile solo alla tecnologia utilizzata (considerando quindi la sala riunioni e il conseguente evento fisico come una delle tecnologie disponibili).

Il metaverso è anche il luogo ideale per battere moneta virtuale. Roblox è un’azienda quotata che ha già realizzato un suo metaverso; questo mondo parallelo vive e si sviluppa grazie ai cosiddetti creator, che contribuiscono a creare e popolare un’economia virtuale alimentata da una specifica criptovaluta chiamata, chissà come mai, Robux. 

Le preoccupazioni di Roger McNamee – uno dei primi investitori di Facebook – pubblicate da Huffington Poste relative al nuovo corso strategico dell’azienda, sono dunque più che legittime. In un mondo ogni giorno più complesso e rischioso, flussi di persone si rifugeranno nei nuovi paradisi artificiali perdendo sempre di più quel coraggio e quella responsabilità necessari per voler contribuire, e quindi lottare, per un modo migliore. L’individualismo e la soddisfazione immediata dei propri bisogni sarà il motore del metaverso, quel principio di piacere che Sigmund Freud contrapponeva al necessario principio di realtà che caratterizza la vita adulta. Aumenteranno le fragilità psicologiche e le paure del confronto diretto, corporeo. Avatar e schermi digitali saranno le nostre difese.

Oltretutto la fuga nei metaversi è già oggi realtà: con la pandemia il numero di chi si ritira dalla vita sociale è cresciuto: attualmente ci sono tra i 120 e i 150mila casi nel nostro Paese. Il 70% è rappresentato da giovani maschi tra i 14 e i 30 anni. Detti hikikomori, costoro si ritirano per scelta dalla vita sociale e si chiudono in casa, talvolta per mesi o anche per anni. La condizione viene definita un disagio adattivo sociale. Molti stanno ore e ore davanti ai videogame, soprattutto con quei giochi che permettono di creare personaggi fittizi, con identità che li soddisfano più di quella reale. 

Mentre in Giappone il fenomeno è ampiamente documentato e ha dimensioni ragguardevoli – lo psichiatra Saito Tamaki ha stimato due milioni di casi nel 2019 – in Italia non esiste un’anagrafe degli hikikomori.  Chissà quanti potenziali hikikomori entreranno nel baratro digitale grazie alle seduzioni digitali che i guru del marketing di Meta concepiranno? 

Il metaverso estende i concetti di spazi e di tempo

Guardando alle potenzialità del metaverso, l’aspetto forse più interessante (e problematico) è la possibilità di dilatare in modo vivido non solo il tempo ma anche lo spazio.

Il digitale – pensiamo alla posta elettronica oppure a WhatsApp (soprattutto con i messaggi vocali) – ha da parecchio esteso la nozione di tempo creando esperienze asincrone, dove avvengono comunicazioni vivide. Un conto è leggere una lettera o una e-mail e un conto è ascoltare la voce registrata. Ascoltandola è come se l’autore ci stesse parlando proprio in quel momento. La comunicazione asincrona avvicina temporalmente momenti distanti fra loro e il suo potenziale è ancora tutto da scoprire.

Anche il concetto di spazio – grazie alla simultaneità di presenza resa possibile soprattutto dalla video comunicazione – è stato dilatato dai mezzi digitali. Il concetto di ubiquità – un tempo attributo divino – è oramai pratica corrente. Possiamo infatti partecipare con facilità a una riunione che avviene dall’altra parte del globo rimanendo comodamente a casa nostra. In un certo senso il digitale ha abbattuto le distanze sfuocando la differenza fra centro e periferia, ufficio e casa, luogo di lavoro e luogo di villeggiatura.

Ma il metaverso fa un passo in più: costruendo ambienti digitali tridimensionali, consente al nostro avatar di immergervisi, attraversarli e abitarli, rendendo ancora più concreta e corporea una nuova esperienza di spazio e di tempo. Impareremo a esplorare e conoscere uno spazio reale semplicemente guidando il nostro avatarnel gemello digitale dello spazio, nella sua rappresentazione virtualizzata. Qui stanno le potenzialità della simulazione e formazione negli spazi virtuali.

È difficile comprendere e valutare, oggi, gli impatti sul nostro sistema percettivo e psichico di queste nuove opportunità. Una cosa è certa: questi impatti saranno rilevanti e trasformativi.

Già da tempo, peraltro, gli psicologi ci mettono in guardia da una con-fusione tra realtà e virtualità: un’eccessiva virtualizzazione dell’esperienza – soprattutto quando fatta in tenera età, in quella delicatissima fase evolutiva in cui stiamo indagando la realtà esterna per comprenderla, delimitarla e, soprattutto, differenziarla dal nostro ego onnipotente creando l’altro-da-sé. Il rischio della frequentazione del metaverso in questa fase del nostro sviluppo è proprio con-fondere, inter-cambiare la realtà fisica con quella virtuale, la concretezza con la finzione.

Secondo alcuni psicologi, ad esempio, i giochi “shoot-them-up” – dove il giocatore deve ammazzare quanti più “cattivi” possibile (e ci sarebbe molto da dire anche sul criterio di identificazione dei “cattivi”), evitando naturalmente di uccidere i “buoni” (spesso riconoscibili in quanto “simili”) – sono fortemente diseducativi. Oltre, infatti, a rendere normale la violenza estrema e considerare giusta l’uccisione dei “cattivi”, virtualizzano il concetto di morte. Ogni volta che si inizia una sessione di gioco, i “cattivi” uccisi nella partita precedente riappaiono in perfetta forma, come se non fosse successo niente. L’assassinio viene relativizzato, diventa replicabile all’infinito perdendo la sua hubris, e la morte diventa uno stato revocabile.

Andrea Granelli è fondatore e presidente di Kanso.

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