I dolori della Brexit

5-12-2022 | News

Nei prossimi anni l’economia crescerà meno che nei Paesi Ue, con un’inflazione più alta e crescenti problemi per le fasce più povere della popolazione. Un esito previsto, che gli inglesi non hanno voluto riconoscere.

A cura della redazione di Harvard Business Review Italia

Nei giorni scorsi, al Festival del Futuro, si è tornati a parlare di Brexit. L’economia nei Paesi europei va, infatti incontro a una recessione, sia pure non profonda e non lunga. Ma la Gran Bretagna se la vedrà peggio poiché crescerà di meno, per più tempo e con un’alta inflazione dovuta a fattori come il maggior costo delle importazioni creato dalla debolezza della sterlina, la pressione sui salari e una minore produttività. Tutto questo era stato previsto da chi, ed erano tanti, sconsigliava gli inglesi di non farsi convincere dai cattivi maestri, come Farage, e di non gettarsi nella grande illusione del distacco dall’Unione europea. Ma furono consigli inascoltati.

Ora però i nodi sono venuti al pettine. Qualche giorno fa, per esempio, è emerso come la Brexit abbia contribuito a rallentare l’economia britannica, a causa di mancanza di lavoratori europei. Lo ha detto Huw Pill, capo economista della Banca d’Inghilterra, secondo il quale sta diventando sempre più acuto il differenziale di produttività del lavoro tra Gran Bretagna e altri Paesi europei. Secondo Pill, «Alcune delle carenze occupazionali attuali in passato venivano ricoperte dal flusso costante di lavoratori europei, su base flessibile. Questa opportunità ora non c’è più».

E così c’è ormai una grave emergenza di posti di lavoro vacanti, con circa 1,3 milioni di posizioni che non si riescono ad occupare, specialmente in settori come la sanità pubblica, i trasporti, la ristorazione e la vendita al dettaglio. Questo avviene dopo il crollo nell’afflusso di lavoratori europei a causa delle nuove e dure politiche migratorie introdotte e anche a causa del fatto che circa 600mila britannici, soprattutto tra 50 e 65 anni, non lavorano più o hanno deciso di abbandonare il mercato del lavoro dopo la pandemia Covid.

La disoccupazione è, in effetti, al 3,6%, ai minimi dagli anni Settanta. Ma questa non è in sè una buona notizia, perché ora la pressione sull’innalzamento dei salari e gli scioperi che hanno investito il Regno Unito potrebbero aggravare ancora di più la spirale inflazionistica, che ha già toccato il tetto dell’11%. Anche per questo Bank of England ha alzato notevolmente i tassi, di circa 3 punti nell’ultimo anno, dopo aver sfiorato i tassi negativi nel 2021.

Un altro importante istituto, il Centre for Economic Performance della London School of Economics, ha calcolato che la Brexit sia costata sinora sei miliardi in più ai britannici in termini di spesa alimentare. In pratica, ogni famiglia ha pagato almeno 210 sterline in più, per comprare gli stessi alimenti a causa della Brexit che ha comportato maggiori oneri doganali. Secondo la Lse, «la Brexit ha contribuito a innalzare il costo del cibo nel Regno Unito del 3% all’anno, per un totale del 6% nel 2022». Nell’insieme, si parla di quasi 6 miliardi di sterline in costi supplementari nel carrello dei cittadini britannici (circa 6,8 miliardi di euro), pari a circa 250 euro a famiglia, con maggiore impatto sulle famiglie più povere dato che queste distorsioni intaccano i bisogni essenziali delle persone.

Tutto questo avviene in un contesto recessivo per l’economia britannica: dopo il disastro finanziario firmato dall’ex prima ministra Liz Truss, il Regno Unito si appresta a due anni di dura recessione secondo Bank of England e crescerà meno di tutti tra i Paesi del G20 (Russia esclusa). Si prevede infatti che la Brexit farà perdere almeno 4 punti di Pil di qui al 2026. 

 Dunque, a oltre sei anni da uno dei referendum più divisivi di sempre e a più di due dalla definitiva uscita del Regno Unito dall’Unione Europea è del tutto chiaro che la Brexit non funziona e che scaricare tutte le colpe sul Covid e sulla guerra in Ucraina non è più sufficiente perché il Paese va peggio, se non molto peggio, di altri Paesi del G7 o economicamente sviluppati. L’economia britannica sta soffrendo più di molte altre e la colpa è senza dubbio della Brexit, anche se nessuno vuole parlarne o mettere in discussione nel Regno Unito, neanche i laburisti che considerano l’argomento tossico.

Come si ricorderà, la Brexit era stata votata dal 52% dei britannici nel 2016, soprattutto contro l’immigrazione e la libera circolazione delle persone dall’Ue, pilastro del mercato unico europeo. Era però già allora evidente che abbandonare il mercato unico collettivo più grande del mondo e lontano solo poche miglia dalla Manica, ossia il mercato unico europeo appunto, avrebbe avuto costi micidiali. E ora lo si vede chiaramente: secondo il Tesoro britannico, la Brexit provocherà una forte perdita del Pil nei prossimi 15 anni nonostante siano stati firmati nuovi accordi commerciali con Giappone, Australia e Nuova Zelanda, che però saranno ben lontani dal compensare le perdite negli scambi con i Paesi Ue. A titolo di esempio, i benefici del trattato di libero scambio con l’Australia sono stati stimati pari allo 0,08% entro il 2035. Misere briciole. 

Quando alla fine del 2019 l’allora primo ministro Boris Johnson firmò il trattato di libero scambio tra GB e Ue, lo presentò come una grande vittoria diplomatica e commerciale, promettendo «Zero dazi, zero tariffe! Cresceremo ancora di più!». Ma quel trattato di libero scambio presenta molte più frizioni, burocrazia e costi doganali rispetto alle regole interne al mercato unico europeo. Di conseguenza, tantissime aziende britanniche, soprattutto quelle medio-piccole che non possono permettersi di aprire una sede in Ue per aggirare il problema, hanno enormi problemi ad esportare in Europa, nonostante una sterlina decisamente deprezzata negli ultimi tempi a causa del disastro finanziario dell’ex prima ministra Liz Truss.

Anche negli investimenti, secondo le statistiche, non si sono mai più raggiunti i livelli del 2016, l’anno del referendum, mentre in Usa ed Ue sono in sensibile ascesa. E la sterlina ha perso costantemente valore dal voto di 6 anni fa, anche se va ricordato che si tratta di un trend in atto già da parecchio tempo, almeno rispetto al dollaro. Ci sono poi problemi cronici dell’economia britannica, come quello della scarsa produttività, aggravatasi soprattutto dopo la crisi dei mutui subprime nel 2008-2009.

Un’altra innegabile conseguenza della Brexit sono le difficoltà che si sperimentano a causa dei problemi che i lavoratori europei incontrano nell’ottenere un visto per gli impieghi meno qualificati, nell’ambito del severo “sistema a punti” sul modello australiano approvato due anni fa dal governo Johnson. Le conseguenze sono evidenti: la disoccupazione è ai minimi da quasi mezzo secolo, al 3,8%, ma ci sono ancora un milione e mezzo circa di posti di lavoro vacanti: molti britannici o autoctoni non vogliono infatti fare certi tipi di mestieri sfiancanti o poco retribuiti, come lavorare nei campi, nei cantieri o anche nei ristoranti, dove intanto si vedono sempre più giovanissimi inglesi alle prime armi e spesso confusionari perché senza esperienza. Non a caso, il nuovo primo ministro Rishi Sunak, un brexiter della prima ora che ha sempre sognato la City come nuova Singapore sul Tamigi simbolo della deregulation, sta pensando di concedere visti più facili ai lavoratori non qualificati. Insomma, l’altro sogno della Brexit, ossia quello di avere salari sempre più alti e piena occupazione autoctona (altro modello Singapore), non sembra essersi affatto avverato, almeno per ora. 

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