«Occorrono circa 700 litri d’acqua per produrre una maglietta di cotone. È abbastanza acqua perché una persona possa bere almeno otto tazze al giorno per tre anni e mezzo. Servono circa 2.000 litri d’acqua per produrre un paio di jeans. È più che sufficiente perché una persona ne beva otto tazze al giorno per 10 anni».
Di Francesca Pennisi
È quanto dichiara Morgan McFall-Johnsen in un articolo dal titolo These facts show how unsustainable the fashion industry is, sul sito del World Economic Forum (WEF), descrivendo l’industria del fashion come una tra le più ad alta intensità idrica, oltre a rimarcare molte altre criticità, riferite più specificamente al fenomeno del fast fashion, contrapposto ad una visione slow dello stesso.
La fashion industry è complessa e abbastanza recente, essendosi sviluppata a partire dal XX secolo come conseguenza del modello capitalistico e della produzione di massa. Il fast fashion nasce invece intorno agli anni ‘90, quando i rivenditori iniziano a proporre collezioni sul mercato a un ritmo vertiginoso, destinato a crescere nel tempo grazie all’influenza di fattori esterni come il cinema, l’arte e la musica.
Alcuni rapporti mostrano che in circa 20 anni la produzione di abbigliamento è raddoppiata, mentre il ciclo di vita di questi prodotti si è abbassato alla metà del tempo. Un articolo pubblicato nel settembre 2022 sul Sole 24 Ore rivela che «le vendite del segmento fast fashion tradizionale sono cresciute di oltre il 20% negli ultimi tre anni, ma anche i nuovi player online stanno guadagnando terreno». Infatti, specialmente durante la pandemia, si è assistito all’affermazione di alcuni nuovi grandi colossi dell’abbigliamento, come Shein o Asos, pesantemente criticati dai media e sui social network sia per la scelta di utilizzare materie prime sintetiche, di bassa qualità e con un forte impatto sull’ambiente, sia per l’uso di manodopera a basso costo.
E se da un lato i giovanissimi sono attratti da questo modello economico, che richiede di inseguire i trend del momento anche se ciò implica usare un capo solo una volta e poi cestinarlo, dall’altro sono anche molto critici nei confronti di questa concezione[1]. Il fast fashion è infatti caratterizzato da ampi volumi produttivi, dallo sfruttamento delle economie di scala e prevede un’offerta vasta e molto variabile nel tempo. Se nel 2000 le aziende offrivano due collezioni all’anno, nel 2011 la media è salita a cinque. In alcuni casi si parla addirittura di 24 collezioni all’anno. Tutto questo si traduce nell’incapacità di trovare un mercato per tonnellate e tonnellate di capi di abbigliamento.
Dal punto di vista ambientale occorre ricordare che l’industria del fashion è responsabile per il 10% dell’emissione di carbonio con drammatiche conseguenze ambientali: basti pensare all’inquinamento delle acque, all’utilizzo di sostanze chimiche tossiche, alle grandi masse di rifiuti – ogni secondo, l’equivalente di un camion della spazzatura pieno di vestiti viene infatti bruciato o scaricato in una discarica – e, ancora, alle condizioni sfavorevoli per i lavoratori, principalmente donne, impiegate in quest’industria.
Ma, tornando ai materiali e in particolare al poliestere, sempre il World Economic Forum indica che ogni anno con il lavaggio vengono rilasciate in media 500.000 tonnellate di microfibre nell’oceano che equivalgono a 50 miliardi di bottiglie di plastica. «Molte di queste fibre tessili sono poliestere, una plastica che si trova in circa il 60% degli indumenti e la cui produzione rilascia due o tre volte più emissioni di carbonio rispetto al cotone. E il poliestere non si decompone nell’oceano.» spiega ancora McFall-Johnsen.
Si rende quindi indispensabile un cambio di mentalità che coinvolga imprese e consumatori, un dialogo che possa favorire una trasformazione sostenibile di un’industria che ad oggi vale 2 trilioni di dollari, secondo le stime del WEF. Ed è chiaro che tutto questo ha un costo che non può essere sostenuto solo dalle imprese. Il cambiamento si dovrà, anzitutto, basare su una maggiore consapevolezza da attuare rendendo più trasparenti le informazioni sui prodotti (contesti, processi di produzione, materie prime, ma anche l’effettiva autenticità dei valori alla base del brand).
Uno dei maggiori movimenti globali che punta a far chiarezza sul tema è rappresentato da The Fashion Revolution Foundation, fondata a seguito del disastro del Rana Plaza in Bangladesh avvenuto nel 2013. Grazie all’hashtag lanciato dalla fondazione nel 2014, pare si sia assistito a un aumento della consapevolezza da parte dei consumatori di come vengono prodotti gli indumenti: questo ha avuto una reazione a catena, inducendo i grandi brand ad accrescere il livello di transparency riguardante le catene di approvvigionamento.
Nel 2016 è stato inoltre lanciato, in accordo con Ethical Consumer, il Fashion Transparency Index, con lo scopo di classificare le aziende in base al loro livello di trasparenza dove i punti vengono assegnati sulla base di 5 criteri:
- policy e impegno;
- governance;
- tracciabilità della catena di approvvigionamento;
- il criterio denominato “sapere, mostrare e modificare”;
- altri temi importanti riguardanti, tra gli altri, le condizioni relative alla forza lavoro (salario, grado di sindacalizzazione e di contrattazione collettiva); la gender e racial equality; i sistemi di approvvigionamento e l’utilizzo di materiali sostenibili; il business model; spreco e circolarità; utilizzo dell’acqua e prodotti chimici; climate change e biodiversità.
Il rapporto 2022 evidenzia che i progressi sono ancora lenti e che, sebbene le aziende comunichino molto sulle azioni poste in essere, non forniscono ancora sufficienti informazioni circa i risultati e l’impatto effettivo di questi sforzi. Lo studio si focalizza sull’aspetto cruciale costituito dalla tracciabilità della supply chain, su cui circa la metà dei brand coinvolti ancora non fornisce alcuna informazione. Ancora, i dati sui lavoratori coinvolti rimangono un tabù e continua a esistere una disparità di salario dal punto di vista della gender e racial equality. Ed è ancora lunga la strada da fare in tema di climate change:
- meno di un terzo delle grandi aziende rivela un obiettivo di decarbonizzazione che copra l’intera supply chain, verificato dalla Science Based Target initiative;
- l’85% dei brand continua a celare i dati relativi ai volumi di produzione nonostante ci siano sempre più evidenze della sovrapproduzione e spreco di vestiti (vedi ad esempio il “cimitero della moda” più grande al mondo rappresentato dal Deserto di Atacama in Perù, che ogni anno accoglie 39 mila tonnellate di vestiti usati o mai indossati).
- solo l’11% dei marchi rivela i risultati dei test delle acque reflue dei propri fornitori, nonostante sia una delle industrie a più elevata intensità idrica. Inoltre, solo un quarto dei brand informa sul processo di conduzione delle valutazioni dei rischi legati all’acqua nella propria supply chain.
- solo il 24% dei brand rivela come riduce l’impatto ambientale delle microfibre sebbene i tessuti, come anticipato, siano la principale fonte di microplastica nell’oceano.
Ancora una volta, come per tanti altri settori, occorre approdare a un modello di sviluppo più sostenibile e “circolare”. La trasparenza è un primo passo necessario per poter “realizzare” dei consumatori più informati e, dunque, più consapevoli.
Francesca Pennisi, Responsabile Marketing & Operations di Eccellenze d’Impresa
[1] Proprio uno studio di Ipsos sulla GenZ informa che “mettere al primo posto l’ambiente e la sostenibilità” è la prima priorità delle sette individuate come in grado di contribuire al miglioramento della società e rigenerare un senso di futuro. Il 40% dei giovani ritiene che i costi per avere prodotti ecosostenibili debbano essere a carico delle imprese e da queste si attendono un forte impegno per cambiare il mondo.