Fashion, rallentare si può? Da Armani alle strategie post-Covid

21-05-2020 | News

«Credo che lo stato attuale delle cose, con la sovrapproduzione di capi e il disallineamento tra il tempo delle collezioni e quello della stagione commerciale, sia davvero assurdo». Le parole di Giorgio Armani, affidate agli inizi di aprile a una lettera aperta pubblicata dal magazine WWD, hanno avuto l’effetto del classico sasso nello staglio del sistema moda globale, già tramortito dallo stop forzato a causa della pandemia. «L’emergenza in cui ci troviamo dimostra che l’unica via percorribile sia un attento e ragionato rallentamento – ha scritto tra l’altro lo stilista simbolo del Made in Italy nel mondo –. Il declino del sistema moda così come lo conosciamo è iniziato quando il segmento del lusso ha adottato gli stessi metodi operativi del fast fashion, (…) dimenticando così che il lusso vero richiede tempo, sia per essere creato che per essere compreso. Il lusso non può e non deve essere veloce».

Lo stilista è presto passato dalle parole ai fatti, prima con l’annuncio della rinuncia alla Milano Digital Fashion Week in formato virtuale prevista a luglio, poi con la decisione di spostare la sua prima sfilata di Haute Couture post-Covid, nel gennaio 2020, da Parigi a Milano, incassando il plauso del sindaco Beppe Sala. Quella auspicata da Armani è una sorta di rivoluzione copernicana per il fashion system italiano, che uscirà letteralmente con le ossa rotte dalla pandemia e dovrà affrontare un mondo cambiato radicalmente in poche settimane.

Sistema Moda, numeri impietosi

Il settore ha già perso più di 3 miliardi e mezzo di fatturato. Un dato che potrebbe triplicare se si considera l’intero anno. I tre mesi di stop a sfilate ed eventi mondani certo hanno colpito duro. Ma è tutta la filiera ad aver risentito pesantemente del lockdown: fabbriche, laboratori artigianali, centri logistici, e poi centri commerciali e retail di lusso. L’allarme è stato lanciato pochi giorni fa dal presidente di Sistema Moda Italia Marino Vago presentando i dati di una indagine condotta nel mese di aprile sulle imprese del settore. Il 42% delle aziende a campione ha dichiarato di aver registrato un calo del fatturato compreso tra il 20% e il 50%, mentre la metà (il 49%) ha accusato un calo della raccolta ordini tra il 20% e il 50% rispetto al medesimo periodo del 2019.

L’uscita dall’emergenza Covid-19 è densa di incognite, legate soprattutto alle dinamiche della ripresa. Un tema evidenziato puntualmente da Luciano Giannetti e Luca Crippa nel recente cahier curato da GEA dal titolo “Il settore del fashion dopo l’emergenza”. Tre i problemi principali da affrontare: crisi di liquidità, filiere locali e globali interrotte e consumatori spaventati e con ridotte disponibilità economiche. Quali possono essere, dunque, le strategie per uscire da una crisi senza precedenti? Quale futuro immaginare per uno dei settori distintivi del Made in Italy?

Mascherine griffate e filiere troppo lunghe

Non si può negare che una prima dimostrazione di resilienza ci sia stata. Il desiderio di sentirsi utili in un momento drammatico per il Paese, unito alla necessità di mantenere vive le proprie produzioni, hanno portato a cercare nuove modalità per reagire. Molti marchi, da quelli del lusso a quelli di fast fashion, si sono adoperati per riconvertire una parte dei propri stabilimenti per realizzare mascherine e camici per medici e infermieri: da Prada a Gucci passando per Valentino, Armani e Salvatore Ferragamo, e molti altri. Ma mentre nella prima fase prevalevano le considerazioni di carattere sanitario, la tutela della salute delle persone e dei propri dipendenti, ora la priorità diventa la sopravvivenza.

Nello studio di Giannetti e Crippa le direttrici indicate per progettare il futuro del sistema moda italiano sono soprattutto tre. Innanzitutto un’operazione su scorte e liquidità, con forti interventi promozionali per liberarsi dall’eccesso di stock, ma anche con un ripensamento del mix fra supply chain lunga (low cost producer) e corta (Italia/Europa) in modo da rendere il sistema produttivo più resiliente e meno fragile. In secondo luogo la spinta verso la multicanalità. Il canale digitale (e-commerce) ha funzionato in questi mesi da salvagente: i siti dei grandi brand e dei negozi multimarca, le piattaforme come Yoox o Net-a-porter e i marketplace (Amazon, Zalando e molti altri) non si sono quasi mai fermati. Ma i comportamenti d’acquisto dei consumatori cambieranno stabilmente e imporranno l’adozione da parte delle aziende di modelli omnichannel. Infine un ripensamento complessivo del modello operativo delle aziende: ridurre i tempi dalla concezione alla commercializzazione del prodotto, così come la dimensione eccessiva dell’offerta ma anche insistere su modelli organizzativi come lo smart working.

La moda deve farsi trovare pronta, far tesoro di questa esperienza e rivedere le priorità. Forse è davvero il momento, come dice ancora Armani, di «rallentare la corsa frenetica alla produzione e alla vendita che genera solo sovrapposizione, spreco e disallineamento tra offerta e stagionalità. Abbiamo il dovere morale, oggi più che mai, di lavorare meglio con meno».

Andrea Fasulo

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