Le cinque generazioni

21-11-2022 | News

Oggi sono ben cinque le generazioni che convivono negli ambienti di lavoro e le tensioni rischiano di crescere. Per disinnescarle e trarre tutti i benefici, è indispensabile valorizzare le diversità tra le classi di età per realizzare qualcosa che nessuna generazione, da sola, sarebbe in grado di costruire.

di Megan W. Gerhardt

Il confronto tra generazioni è un fenomeno diffuso, ma oggi è possibile cogliere una marcata divisione tra generazioni sotto molteplici aspetti: attivismo politico, cambiamento climatico, social media, tecnologia, privacy e identità di genere. Poiché oggi cinque generazioni (Silent Generation, Baby Boomer, Gen X, Millennial e Gen Z) convivono per la prima volta negli ambienti di lavoro, le tensioni rischiano di crescere. L’ira e la sfiducia che possono causare compromettono la performance delle imprese e fanno diminuire la qualità del lavoro di squadra. Inoltre, la mancanza di consapevolezza e di comprensione dei problemi che si accompagnano alla diversità anagrafica possono portare alla discriminazione nelle selezioni e nelle promozioni, con rischi elevati di contenzioso giudiziario.

Sono, però, molte le organizzazioni che non intraprendono azioni concrete per affrontare i problemi generazionali. Anche se sale il numero delle imprese che esercitano i loro sforzi sul piano della diversità, solo l’8% delle organizzazioni include l’età nella propria strategia DEI (Diversity, Equity, Inclusion). E tra quelle che lo fanno, la strategia si è limitata spesso a invitare i membri di generazioni diverse a concentrarsi sulle loro affinità o a negare del tutto la realtà delle loro differenze.

È un’occasione persa. I team intergenerazionali sono preziosi perché mettono assieme persone che hanno abilità, competenze, informazioni e network complementari. Se gestiti efficacemente, possono assicurare un processo decisionale più efficace, una collaborazione più produttiva e una performance complessivamente migliore. Ma solo se i componenti sono disposti a collaborare seriamente e a imparare dalle loro differenze. Immaginate un team multigenerazionale di sviluppatori di prodotti, che fonde la lunga esperienza e il vasto network di clienti dei suoi membri più anziani con i punti di vista innovativi e tecnicamente ultra-aggiornati dei più giovani. Un gruppo di questo tipo può usare la sua diversità anagrafica per realizzare qualcosa che nessuna generazione sarebbe in grado di costruire singolarmente.

Un esempio è dato dall’Open Sustainability Technology Lab della Michigan Technological University, un team multigenerazionale che ha creato le prime stampanti 3D open source per componenti metallici. L’ex direttore Joshua Pearce attribuisce il successo del team alla disponibilità dei suoi membri a imparare da quelli di altre generazioni. Per sviluppare i loro nuovi prodotti, avevano bisogno delle competenze tecniche di docenti della Gen X, delle capacità di utilizzo del software di laureati Millennial e del talento esperto di ricercatori Boomer. Per esempio, quando uno dei membri più giovani del team si è rivolto ad Amazon per ordinare urgentemente un componente meccanico, è intervenuto un collega più anziano e l’ha costruito con dei pezzi di ricambio più rapidamente di quanto non avrebbe potuto recapitarlo la stessa Amazon. Combinando le diverse abilità, il team ha imparato a stampare alluminio e acciaio in 3D a un costo molto più basso di quanto non fosse possibile in precedenza.

Ecco perché ignorare le differenze generazionali non è la risposta. Nel lavoro che abbiamo svolto con gruppi intergenerazionali nella finanza, nell’assistenza sanitaria, nello sport, nell’agricoltura e nell’R&S, abbiamo scoperto che un approccio più efficace è aiutare le persone a riconoscere, ad apprezzare e a mettere a frutto le proprie differenze – proprio come fanno le organizzazioni con altri tipi di diversity. Le evidenze empiriche dimostrano che quando si usano strumenti DEI ampiamente collaudati per superare i gap generazionali, essi possono ridurre il conflitto, combattere gli stereotipi generazionali e migliorare l’impegno organizzativo, la soddisfazione professionale, il turnover dei dipendenti e la performance organizzativa.

Nel nostro libro, Gentelligence, descriviamo il framework che abbiamo messo a punto per allontanare i colleghi dal conflitto generazionale e orientarli verso un’accettazione produttiva delle differenze reciproche. Il nostro schema comporta l’utilizzo di quattro pratiche. Le prime due, identificate i vostri assunti adeguate la vostra lente interpretativa, aiutano a superare falsi stereotipi. Le altre due, sfruttate le differenze promuovete l’apprendimento reciproco, guidano le persone a mettere in comune conoscenze ed expertise per crescere assieme. Ogni pratica include anche un’attività per l’applicazione delle idee su cui si basa. I team che sperimentano un conflitto generazionale dovrebbero partire dalle prime due; le altre due aiuteranno i gruppi ad andare al di là della mera efficienza funzionale per sfruttare l’apprendimento e l’innovazione che possono offrire i team intergenerazionali.

Chi è interessato a conoscere i dettagli e avviare le attività che suggeriamo, può leggere la serie di articoli pubblicati su Harvard Business Review Italia di giugno 2022. Ma vediamo cos’è una generazione e come si differenziano le generazioni.

Le generazioni oggi

Una generazione è una coorte anagrafica i cui membri sono nati nello stesso periodo storico e vivono perciò eventi e fenomeni simili nelle stesse fasi della vita. Queste esperienze collettive – come per esempio, una disoccupazione elevata, un boom delle nascite o un cambiamento politico – possono influenzare in un determinato modo i valori e le norme del gruppo. Poiché queste esperienze formative variano da una cultura all’altra, le specificità del mix generazionale potrebbero variare da un Paese all’altro.

Ma, ovunque nel mondo, le diverse prospettive, i diversi atteggiamenti e i diversi comportamenti delle coorti anagrafiche possono causare dei conflitti. Per esempio, in molti Paesi, i lavoratori più anziani, che hanno dominato per decenni gli ambienti di lavoro, restano in servizio più a lungo grazie alle migliori condizioni di salute e alla longevità. I colleghi più giovani, che aspirano al cambiamento e alla mobilità ascendente, spesso non aspettano che vederli andar via. E quando Boomer e nativi digitali lavorano fianco a fianco, possono insorgere dei contrasti sul livello di apprezzamento dei rispettivi contributi. Se il database clienti costruito da un dipendente più anziano viene sostituito da un software automatizzato suggerito da un collega più giovane, l’anziano potrebbe avere la sensazione che il suo contributo venga minimizzato.

Queste frustrazioni generazionali si sono accentuate ulteriormente durante la pandemia. Poiché persone di tutte le età hanno lasciato il lavoro con le Grandi Dimissioni, lavoratori più senior e più junior si contendono posizioni analoghe. Mentre gli anziani hanno più esperienza, gli under 35, stando a un’indagine condotta recentemente sui manager che stanno assumendo nuovi collaboratori, si considerano i più adatti, in termini di preparazione scolastica, competenza e integrabilità culturale, a ricoprire le posizioni vacanti. Anche se durante la pandemia sono passati quasi tutti al lavoro a distanza, generazioni diverse tendevano a trascorrere il tempo su piattaforme diverse – i più maturi su Facebook e i più giovani su TikTok – approfondendo la divisione digitale. I dipendenti della Gen Z, nel frattempo, lavorano in remoto praticamente dall’inizio della vita professionale, per cui molti di loro si sentono ignorati dai colleghi della stessa fascia anagrafica e sottovalutati da quelli più vecchi. E le generazioni più anziane si sono adattate al lavoro da casa meglio di quanto non ci aspettasse, perché la flessibilità ha dato loro una nuova carica psicologica dopo una vita trascorsa in ufficio.

Molte di queste tensioni – e il clamore mediatico che le circonda – hanno fatto calare ulteriormente la fiducia tra le generazioni. Le azioni che suggeriamo nelle quattro pratiche e nelle relative attività sono finalizzate a superare quel gap e ad accrescere la cooperazione intergenerazionale.

Evitate gli stereotipi

Le ipotesi che facciamo automaticamente sui gruppi generazionali (compreso il nostro) possono impedirci di capire il vero sé dei colleghi, nonché le competenze, le informazioni e i contatti che possono mettere a disposizione. Prendere coscienza di questi stereotipi è la prima cosa da fare per combatterli.

Considerate titoli come questo del 2019: “Perché i ‘pigri’ e ‘pretenziosi’ millennial non riescono a tenersi un lavoro più di 90 giorni”. Come avviene spesso, anche questo stereotipo non regge a una verifica più approfondita. Il Pew Research Center ha scoperto che il 70% dei Millennial, la cui età va attualmente da 26 a 41 anni, restano alle dipendenze dello stesso datore di lavoro almeno 13 mesi; il 69% dei Gen X “duravano” altrettanto nello stesso periodo della loro vita.

Non tutti i pregiudizi sono così manifesti da finire sulle pagine dei giornali. Ma anche delle convinzioni che nutriamo a livello subconscio possono influenzare le nostre interazioni e il nostro processo decisionale, spesso senza che ce ne rendiamo conto. Immaginate per esempio che vi chiedano di indicare alcuni colleghi a cui affidare una campagna promozionale su Instagram. Chi vi verrebbe in mente? Probabilmente qualcuno dei vostri colleghi sui vent’anni. A livello conscio, penserete di scegliere i più qualificati, i più interessati e i più in grado di trarre beneficio da quell’esperienza. A livello inconscio, vi baserete sulla convinzione automatica che i più anziani abbiano in odio la tecnologia o non vogliano imparare nulla di nuovo.

Quando si parla di conflitto nei team intergenerazionali, la gente pensa spesso, con buona ragione, che ci sia di mezzo qualche problema legato all’età, ma assume frequentemente che voglia dire anche qualcos’altro. Abbiamo dunque bisogno di uno strumento che ci aiuti a riconoscere i pregiudizi anagrafici, a capire le tensioni che si vengono a creare e a prevenire il conflitto che sta maturando. 

In generale, lo scopo non è arrivare a conclusioni definitive, ma portare a galla nuove idee che forse in passato erano state scartate o erano rimaste inespresse. Emergeranno inevitabilmente opinioni divergenti e potrebbe addirittura nascere un conflitto – ma va benissimo. Occorre continuare a riportare la conversazione sugli obiettivi condivisi e ribadire che le divergenze di opinioni sono contributi apprezzati al perseguimento del successo comune. Creando uno spazio per la discussione delle modalità di funzionamento del gruppo, i manager dimostrano che tutti i punti di vista sono ugualmente apprezzati.

Apprendimento reciproco

I team intergenerazionali possono portare grandi benefici e, per massimizzarli, i loro membri devono convincersi di avere qualcosa da imparare dai colleghi di altri gruppi anagrafici. L’obiettivo finale è l’apprendimento reciproco: colleghi di tutte le età che insegnano e imparano a vicenda in un circuito virtuoso permanente. Un modo per incoraggiare questo processo è attivare iniziative formali di mentoring. Mentre programmi tradizionali di mentoring (colleghi più anziani che istruiscono colleghi più giovani) esistono in molte organizzazioni, varie aziende leader – come GE, Deloitte, PwC, Cisco e Procter & Gamble – hanno sviluppato programmi di “reverse mentoring”, in cui persone più giovani insegnano a colleghi senior nuove competenze, quasi sempre in campo tecnologico. Le ricerche dimostrano che questi programmi favoriscono lo sviluppo di competenze e abilità nei dipendenti, e accrescono sia il coinvolgimento individuale sia la motivazione collettiva.

Ci siamo talmente abituati a classificare le generazioni – o, all’opposto, a minimizzare le differenze che esistono effettivamente – da esserci dimenticati che ci sono effettivamente dei benefici nella diversità anagrafica. Specie adesso, con tutti i cambiamenti che sono interventi nel nostro modo di lavorare, i leader hanno il dovere etico e professionale di mettere i team intergenerazionali al centro delle politiche DEI e di considerarli un’opportunità da cogliere anziché una minaccia da prevenire.

Megan W. Gerhardt è docente di Management e Director of Leadership Development alla Farmer School of Business della Miami University. Josephine Nachemson-Ewall è vice president, independent compliance and risk management di Citi. Brandon Fogel è dottorando alla University of Nebraska. 

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