I tempi lunghi della transizione energetica

3-11-2022 | News

L’aggressione russa all’Ucraina e i forti tagli all’export di gas e petrolio hanno aggravato una situazione già difficile a causa delle conseguenze della crisi pandemica. Questo renderà ancora più complesso il compito di realizzare la necessaria transizione ecologica, anche a causa di politiche europee non sempre coerenti con gli obiettivi.

di Carlo Stagnaro

Nonostante la frenata dell’economia, le emissioni di CO2 sono cresciute, nella prima metà del 2022, di circa il 2%. Può apparire una piccola variazione, ma è invece significativa alla luce degli immensi sforzi e risorse che, da anni, gli Stati membri investono nella decarbonizzazione. Dietro tale rialzo c’è l’effetto della crisi energetica scoppiata nel 2021 e fortemente deteriorata dopo l’invasione russa dell’Ucraina. Infatti, rispetto al primo semestre 2021, l’Ue ha visto ridursi in modo consistente il consumo di gas (-11%) e ha parzialmente compensato tale calo con fonti energetiche a maggiore intensità carbonica, quali i prodotti petroliferi (+8%), carbone (+7%) e lignite (+12%). La situazione è destinata a diventare ancora più tesa nei prossimi due mesi e, con ogni probabilità, anche nel 2023. E sarebbe ancora peggiore se la richiesta di energia in generale non fosse temperata dal rallentamento della crescita, che almeno in alcuni Paesi (come la Germania) rischia di sconfinare nella recessione. 

Le esitazioni delle politiche europee

È da questi dati che bisogna partire per interrogarsi sul futuro della transizione ecologica. Formalmente nessuno mette in dubbio gli obiettivi europei di medio e lungo termine, cioè il taglio delle emissioni del 55% al di sotto dei livelli del 1990 entro il 2030 e la neutralità carbonica (cioè emissioni nette pari a zero) entro il 2050. Anzi, le istituzioni europee tendono a rilanciare: sia il piano Fit for 55 – varato in reazione alla crisi pandemica – sia quello RePowerEu, teoricamente la cornice per una risposta comune all’inflazione energetica in atto, rendono i target formali su decarbonizzazione e rinnovabili ancora più ambiziosi. 

Ci sono, però, indicazioni del fatto che la realtà si sta muovendo in tutt’altra direzione. 

Che la risposta immediata alla scarsità del gas passi per la ripresa dell’utilizzo del carbone può apparire (ed è) una scelta obbligata, quanto meno per contenere i prezzi dell’energia elettrica e ridurre il rischio di blackout. Ma essa desterebbe meno preoccupazione se si trattasse di una svolta isolata. Invece non lo è. Perché la stessa disponibilità a riaccendere il carbone annacquando i precedenti impegni a dismetterlo – per esempio, in Italia, avremmo dovuto chiudere gli impianti entro il 2025 – non la si è vista nei confronti di una fonte priva di emissioni come il nucleare. 

In questo caso, la Germania ha chiuso tre delle sei centrali attive alla fine dell’anno scorso, e si appresta a fermarne una quarta: le altre due, che pure avrebbero dovuto cessare le operazioni, resteranno in esercizio, ma questa decisione è arrivata tardi e solo di fronte a una situazione estrema. Il Belgio ha invece confermato lo stop a uno dei suoi sette reattori nel mese di settembre 2022 e non sembra voler modificare il programma di phase out dei rimanenti, attualmente fissata nel 2025. Quindi, dovendo scegliere tra quale impegno violare – quello alla riduzione delle emissioni oppure quello all’abbandono dell’atomo – Berlino e Bruxelles sembrano ritenere l’uno meno vincolante dell’altro. 

Va inoltre ricordato che tutti gli Stati membri dell’Unione europea hanno predisposto ingenti risorse finanziarie per ridurre i prezzi dell’energia. L’Italia finora ha speso circa 60 miliardi di euro, il 3,3 % del Pil, a tal fine. La maggior parte delle altre nazioni europee hanno stanziato tra il 2 e il 3% del prodotto interno lordo e altri denari saranno impiegati nel futuro. La Germania ha varato un maxi-programma da 200 miliardi (5% del Pil) per il 2023-24. Il Regno Unito, il più generoso finora, ha addirittura messo sul piatto quasi il 7% del proprio Pil. Questi soldi non servono solo a erogare aiuti mirati – per esempio alle famiglie a basso reddito o alle imprese in condizione di particolare difficoltà – ma sono in gran parte destinati a beneficiare “a pioggia” l’intera società. 

Possono esserci molte buone ragioni per farlo, ma ci sono anche due enormi motivazioni per evitarlo o, quanto meno, moderarsi. La prima ha a che fare con la crisi in corso: qualunque misura finalizzata a sopprimere il segnale di prezzo equivale a un incentivo al consumo (di energia in generale e di gas in particolare). Sicché rischia di aggravare la situazione anziché aiutare a tenerla sotto controllo. Ma c’è un altro aspetto rilevante: un anno fa, alla Cop26 di Glasgow (31 ottobre – 12 novembre 2021), i leader globali firmarono una dichiarazione congiunta in cui si impegnavano a ridurre i sussidi ambientalmente dannosi, cioè quelle politiche fiscali che direttamente o indirettamente incentivano l’impiego delle fonti fossili. Pochi mesi dopo (febbraio 2022) il Ministero della Transizione ecologica rilasciava la nuova edizione del “Catalogo dei sussidi dannosi e favorevoli per l’ambiente”, che denuncia una per una tutte le misure che hanno tale effetto e contiene anche precise indicazioni di policy, tra cui quella di inasprire le accise sul gasolio (!). 

Al di là delle discussioni metodologiche sul modo in cui questi elenchi sono compilati, e il modo in cui vengono valutati i singoli provvedimenti, fa abbastanza impressione notare che il 2022 è stato probabilmente l’anno in cui il volume di questi sussidi è esploso senza precedenti. Sarà interessante vedere come saranno classificate le varie spese fiscali e le deroghetemporanee” alla fiscalità energetica adottate nel corso di quest’anno e del prossimo, quando uscirà la successiva edizione del volume. 

Possiamo, ovviamente, ritenere tutti questi interventi del tutto temporanei e legati alla contingenza, e pensare che – non appena l’emergenza sarà superata – torneremo a batterci con eguale convinzione per l’abbattimento delle emissioni. Ma siamo sicuri? Non è per nulla scontato. E non solo perché alcune delle scelte compiute hanno già generato effetti, determinando un incremento delle emissioni nel 2022-23 che dovrà in qualche modo essere compensato in futuro. Il fatto è che molte di esse saranno politicamente difficili da mettere in discussioni. Per esempio, poche settimane dopo che il Catalogo del Mite invocava un incremento delle accise sul gasolio, il governo italiano in realtà abbassava “temporaneamente” il livello del prelievo sui carburanti per autotrazione. In teoria si tratta di una scelta transitoria. Ma non sarà facile, per il nuovo esecutivo, presentarsi di fronte agli italiani e annunciare il ritorno alla “normalità”, cioè un incremento secco delle accise di 25 centesimi per litro. 

Un biennio difficile

Al quadro descritto, si aggiunge un ulteriore e meno ovvio elemento. L’ultimo anno e mezzo è stato – e, verosimilmente, lo sarà anche il prossimo biennio – estremamente difficile non solo per la società e l’economia in generale, ma in particolare per gli operatori del mercato dell’energia. Alcuni hanno certamente fatto profitti stellari (i produttori di oil & gas e i produttori di energia elettrica da fonti rinnovabili, almeno per i volumi non contrattualizzati a prezzi stabiliti ex ante). Ma la gran parte degli operatori del mercato – specie i trader e i venditori – stanno attraversando una fase che ne mette a repentaglio la stessa sopravvivenza. L’incremento così repentino e spaventoso non solo del livello dei prezzi, ma anche della volatilità, li espone a oneri finanziari e marginazioni quasi insostenibili, e oltre tutto li mette nella condizione di non potersi assumere il rischio di contrattualizzare ogni cliente, lasciando molte imprese prive di fornitore. 

Non è un caso se diversi Paesi hanno dovuto adottare strumenti straordinari di iniezione di liquidità o ricapitalizzazione dei soggetti in difficoltà: su tutti, la Germania, che ha dovuto salvare il maggior operatore, Uniper, che ha una quota di mercato attorno al 40% nella vendita del gas ai clienti finali. La situazione è resa ulteriormente complessa da una serie di interventi adottati dai Governi, che hanno messo ancora più alle strette questi soggetti: basti pensare, in Italia, all’obbligo di rateizzazione per i clienti finali o al divieto di adeguamento unilaterale dei contratti. 

In questo contesto, riprendere la strada della transizione dovrà inevitabilmente fare i conti con due enormi scogli da superare. Il primo sarà il riassorbimento delle misure eccezionali varate in questi mesi, che almeno in parte contraddicono gli obiettivi della decarbonizzazione, mentre altre, ovviamente, sono invece coerenti con essi: è il caso delle semplificazioni per le fonti rinnovabili. Il secondo consiste nella demografia delle imprese energetiche, che sono strumenti e attori fondamentali della transizione, ma che potrebbero essere decimati alla fine di questo periodo. Senza contare che un effetto – forse non voluto, ma certo sostanziale – dell’approccio adottato da molti Stati membri (inclusa l’Italia) e in parte dalla stessa Ue sarà quello di una progressiva centralizzazione e statalizzazione delle decisioni. Lo si vede dal dibattito, dal vago sapore marxiano, sul “disaccoppiamento” dei prezzi dell’energia elettrica da quelli del gas, come se non fosse la norma in qualunque mercato delle commodity che il prezzo del bene dipende dal costo marginale di produzione. L’alternativa, naturalmente, è – sul piano teorico e ancor più su quello pratico, come si vede dalle confuse misure adottate a tal fine – quella di intervenire a gamba tesa con forme più o meno articolate e più o meno invasive di controllo dei prezzi. Questo contraddice il percorso ventennale di privatizzazione e liberalizzazione che aveva plasmato, fin qui, il panorama energetico europeo. Ma pone un ennesimo ostacolo al ritorno alla normalità. 

Spinte contraddittorie

Si tratta, quindi, di capire come adeguare non tanto gli obiettivi di lungo termine delle politiche per la transizione, quanto gli strumenti e le modalità attuative. Finora l’Europa ha navigato – non senza contraddizioni – tra una politica energetica tendenzialmente ispirata ai principi della libera concorrenza e una politica ambientale molto più interventista. Sicché, da un lato si percorreva la strada della separazione verticale degli ex monopolisti, della competizione nel mercato e della spinta verso meccanismi di pricing tali da riflettere le reali condizioni di domanda e offerta (la centralità dell’odiato Ttf nasce proprio qui e la sua rottamazione sarebbe un grave errore sotto questo profilo). Dall’altro lato, si introducevano però obblighi sempre più dettagliati non solo sulla riduzione delle emissioni, ma anche e soprattutto sugli strumenti da adottare per raggiungerla: quali e quante rinnovabili, quali e quante tecnologie per l’efficienza energetica, che tipo di carburanti per i trasporti, e così via. Il risultato di questa spinta contraddittoria è stata una regolamentazione del mercato generalmente orientata alla promozione della concorrenza, ma anche una fiscalità energetica di segno del tutto opposto. 

Con Philip Booth abbiamo analizzato l’effetto ambientale delle tasse e dei sussidi all’energia nei 27 Stati membri dell’Unione europea e nel Regno Unito, trovando la totale assenza di coerenza tra gli obiettivi dichiarati (la decarbonizzazione) e le conseguenze dell’intrico tra tasse e sussidi. Per esempio, sulla base di dati pre-crisi, l’emissione di una tonnellata di CO2 attraverso la combustione di prodotti petroliferi in un’automobile era soggetta a una tassazione implicita di circa 90 euro, mentre la stessa tonnellata di CO2 emessa da una centrale a carbone paga un dazio di soli 10 euro. Viceversa, l’abbattimento di una tonnellata di CO2 attraverso fonti quali le biomasse o l’idroelettrico è premiato con un incentivo medio tra i 10 e i 50 euro, mentre lo stesso risultato – se perseguito attraverso l’installazione di pannelli fotovoltaici o pale eoliche – garantisce un sussidio, rispettivamente, superiore a 200 o di 100-150 euro. 

Perciò, le contraddizioni preesistenti si sommano alle conseguenze degli interventi “transitori”. È un bene che l’Europa non abbia finora mai messo realmente in discussione gli obiettivi ambientali. Ma è anche essenziale una riflessione critica sul modo in cui essi sono stati perseguiti finora, avallando e anzi amplificando politiche incoerenti come appunto l’utilizzo della fiscalità energetica. E anche riconoscendo che l’attuale crisi è, in parte, figlia di una perversione nelle politiche ambientali che, per esempio, hanno spesso confuso l’obiettivo (desiderabile) di ridurre la domanda di combustibili fossili con quello di abbandonarne la produzione. Cosa che ci ha portati a una crescente dipendenza non tanto dall’estero, quanto da un numero ristretto di Paesi tra cui, ovviamente, la Russia. 

Per concludere: è essenziale rimettere la decarbonizzazione al centro della nostra politica energetica, ma non sarà facile farlo dopo che, travolti dall’emergenza e forse anche dal panico, abbiamo messo in discussione l’intero ordine energetico che ci eravamo dati. 

Carlo Stagnaro è Direttore ricerche e studi dell’Istituto Bruno Leoni. 

Condividi questo contenuto su: