Cresce ogni anno il numero delle Academy aziendali. Le entità più evolute si configurano come veri e propri contenitori di conoscenza a disposizione non solo delle imprese che le fanno nascere, ma anche degli stakeholder con cui si interfacciano.
di Giuseppe Cappiello
Correva l’anno 1927 quando General Motors fondava, prima esperienza riconosciuta, una propria Academy, ovvero una specifica struttura organizzativa dell’azienda attraverso cui formare il personale a svolgere dei compiti che iniziavano a diventare sempre più specializzati. Gli effetti della Rivoluzione industriale si stavano manifestando su larga scala e Frederick Taylor aveva pubblicato da qualche anno i Principles of Scientific Management (1911). Dopo il capitale finanziario un nuovo fattore della produzione iniziava a imporsi: la conoscenza.
Come evidenziato da Abramovitz, la parte principale della crescita che si è registrata tra il 1870 e il 1950 in termini di reddito pro-capite (297%) deve essere attribuita a fattori diversi dalla quantità di lavoro e capitale utilizzati e si riferiscono, per esempio, a una maggiore razionalizzazione delle mansioni, della produzione o modifiche negli assetti istituzionali; in sintesi, a maggiori investimenti in ricerca e più in generale alla generazione e utilizzo di conoscenza.
Ai giorni nostri, quasi cento anni dopo l’iniziativa seminale di General Motors, sono migliaia le imprese a livello mondiale che hanno deciso di dotarsi di una propria struttura appositamente dedicata alla gestione della conoscenza. In Italia nel 2012 se ne contavano 39 e una indagine in corso promossa da Unica, la Corporate University del Gruppo Unipol, ne ha censite oltre 130.
La conoscenza, a ben vedere, è sempre stata una risorsa fondamentale (l’homo sapiens si afferma nell’evoluzione della specie per la capacità di accumulare conoscenza), ma essa acquisisce attenzione specifica solo con l’età moderna, allorquando l’applicazione del metodo scientifico consente la verificabilità delle affermazioni attraverso esperimenti riproducibili.
Nel campo del management e dell’economia d’impresa, solo intorno agli anni Ottanta del secolo scorso si riconosce l’importanza di risorse “firm specific” accumulate nel tempo all’interno dei confini dell’impresa, risorse difficilmente imitabili per via delle protezioni legali, come nel caso dei brevetti, o per la possibilità di combinarle e utilizzarle in maniera originale. Per lungo tempo si era pensato di gestire la crescente complessità dell’ambiente competitivo attraverso il calcolo di convenienza e l’organizzazione, programmando il più possibile le attività da svolgere. Ma la formula non ha retto.
L’abbattimento delle barriere nazionali ha consentito di estendere geograficamente sia il reperimento di merci e forza lavoro sia i mercati di sbocco. In questo modo si sono consolidate, per le organizzazioni più rapide e più capaci a cogliere le opportunità, delle catene del valore globale che vedono coinvolte imprese che prima non riuscivano a connettersi e che ora competono e cooperano allo stesso tempo. Le innovazioni nell’ambito della comunicazione e dell’informazione (ICT) hanno sicuramente favorito questo tessuto di relazioni.
La “rivoluzione” che sta emergendo ha tre caratteristiche: è esponenziale, digitale e ricombinante.
Nel 1965 Gordon Moore, a quel tempo a capo della divisione Ricerca e Sviluppo della Fairchild Semiconductors e in seguito fondatore di Intel, previde che negli anni successivi la quantità di componenti presente in un semiconduttore sarebbe raddoppiata ogni anno. Al di là delle correzioni che si potrebbero apportare alla Legge di Moore, è vero che il ritmo dello sviluppo tecnologico e della moltiplicazione degli usi della conoscenza ha seguito una funzione esponenziale e non lineare.
La codificazione delle informazioni e la trasformazione digitale in corso non conducono solamente a una riduzione dei costi di produzione e, soprattutto, di riproduzione, ma anche a una modifica del modello di business e dell’assetto proprietario.
Come noto, ad esempio, il costo maggiore di un prodotto editoriale (libro, audio, video) è la realizzazione della prima copia e ogni riproduzione avviene a costo marginale vicino allo zero. Tuttavia, questa non è la questione più ricca di conseguenze poiché il digitale permette l’interazione tra i vari utenti e anche la creazione da parte dell’utente di una parte del valore finale. Le mappe stradali digitali hanno archiviato quelle cartacee e facilitato il raggiungimento di una destinazione; le mappe digitali vengono utilizzate anche a livello industriale unitamente a sofisticati programmi che ottimizzano i percorsi, ma il vero potenziale lo manifestano quando i percorsi suggeriti si modificano in base alle condizioni del traffico, informazioni che si ricevono automaticamente da altri utenti connessi. È quindi un modello di business che si basa sulla co-creazione di valore.
Infine la rivoluzione attuale è ricombinante e cioè ricompone continuamente nuove forme utilizzando gli stessi “mattoncini”, un po’ come succede con le solite sette note musicali che generano brani sempre nuovi.
In questo contesto è difficile distinguere cause ed effetti della continua crescita di numero e dimensione delle Corporate University, un fenomeno che va ben oltre la semplice riorganizzazione della formazione aziendale; probabilmente il contemporaneo manifestarsi e rincorrersi delle innovazioni ha accelerato il percorso del cambiamento a cui si sta assistendo e ha enfatizzato la necessità di generare internamente, o acquisire dall’esterno, conoscenza sempre nuova per comprendere meglio il presente e individuare per il futuro soluzioni di maggior valore per il cliente.
La gestione della conoscenza per un’impresa assume un ruolo strategico in almeno due circostanze: la prima riguarda il momento dell’assunzione di nuovo personale; sia per l’impresa che per il lavoratore è importante l’integrazione con il resto dell’organizzazione sia in termini di allineamento delle competenze che di clima organizzativo e di consolidamento delle “norme sociali”.
La seconda circostanza, invece, riguarda quei periodi della vita di una impresa caratterizzati dall’introduzione di innovazioni tecnologiche, da cambiamenti istituzionali o, in generale, da qualunque situazione che imponga una riorganizzazione del lavoro. Si pensi, ad esempio, agli effetti dell’emergenza sanitaria in corso.
In tali passaggi cruciali della vita di un’impresa si assiste a una rapida obsolescenza della conoscenza disponibile, nonché al mutamento della platea delle mansioni. La componente qualitativa del lavoro cresce e ciò va a vantaggio soprattutto dei lavoratori più qualificati. Le previsioni più pessimistiche riguardo al futuro del lavoro prevedono una polarizzazione delle mansioni a scapito di intere categorie di figure professionali.
Nei momenti di cambiamento la principale soluzione esercitata è quella di colmare eventuali lacune o inadeguatezze rispetto alle nuove sfide attraverso la formazione tradizionale, magari aumentando le ore erogate; le Corporate University sembrano porsi obiettivi più ampi. Non si tratta solamente di trasferire ai lavoratori contenuti nuovi, ma di condividere una visione, una interpretazione degli eventi, delle ipotesi per affrontare il nuovo.
Le modalità con cui le imprese costituiscono una Corporate University sono varie e cambiano, anche temporalmente, in funzione delle esigenze e della cultura di chi le governa. Le entità più evolute si configurano come veri e propri contenitori di conoscenza a disposizione non solo delle imprese che le hanno fatte nascere, ma anche di tutti gli interlocutori con cui le imprese si interfacciano abitualmente (stakeholder university) e con i quali vanno a consolidare il capitale sociale.
Sarà interessante vedere come evolverà questo fenomeno e quale sarà la reazione delle agenzie formative tradizionali.
Giuseppe Cappiello è Professore associato di Economia e gestione delle imprese, Università di Bologna.