I 10 anni che cambieranno il mondo dell’energia

29-09-2022 | News

È fondamentale e urgente un nuovo paradigma di sviluppo del sistema energetico che punti a ottimizzare l’efficienza delle fonti di approvvigionamento secondo criteri di sostenibilità.

di Alessandro Lanza

Energia

È un dato di fatto che la crescita economica abbia finora alimentato in misura preponderante il riscaldamento globale. Questa correlazione appare evidente dalla proporzionalità tra attività economica, relativo utilizzo energetico e consumo di risorse naturali. Si tratta di un modello socioeconomico basato sulla crescita esponenziale che l’umanità porta in dote da tempo immemore e che si sviluppa da più di tre secoli, ovvero a partire dalla prima rivoluzione industriale. Oggi come mai, però, tale modello mette in luce la limitatezza delle fonti che ne sostengono il funzionamento. Basti considerare che il consumo medio pro-capite di carburante è aumentato di dieci volte negli ultimi 300 anni e che oggi le fonti fossili rappresentano ancora l’80% del mix energetico globale, legando dunque a doppio filo il consumo energetico alle emissioni di gas serra, e determinando in ultima istanza crescenti esternalità negative dal punto di vista climatico.

È possibile superare la correlazione tra crescita del PIL e consumo energetico, oggi insostenibile soprattutto in alcuni Paesi industrializzati? Esistono eccezioni alla correlazione tra sviluppo economico e aumento esponenziale del consumo energetico? Quali sono i fattori determinanti capaci di influenzare, se non invertire, le dinamiche caratterizzanti la nostra società in relazione al fabbisogno energetico? 

In questo quadro, i ripetuti allarmi lanciati dall’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC) sono inequivocabili: si è ormai vicini a raggiungere la soglia del riscaldamento globale concordata a livello internazionale di 1,5 gradi al di sopra dei livelli preindustriali. L’unico modo per invertire il pericoloso trend in atto è intensificare urgentemente i nostri sforzi verso la decarbonizzazione. È, infatti, del tutto fuorviante pensare ai cambiamenti climatici come a qualcosa di prossimo. Vi siamo già dentro. In ogni scenario IPCC, la temperatura media globale aumenterà almeno fino a metà secolo e, di questo passo, la soglia degli 1,5 gradi verrà raggiunta entro il 2040. Nello scenario migliore, quello con azzeramento delle emissioni entro il 2050, si potrebbe ancora contenere l’aumento delle temperature entro i 2 gradi.

Nel dibattito pubblico attuale è ancora lecito chiedersi se, a partire da oggi e nei prossimi 10 anni, periodo cruciale per intraprendere un percorso di transizione verso una globale decarbonizzazione dei sistemi energetici e il conseguente raggiungimento delle zero emissioni al 2050, la sola scelta che abbiamo a disposizione sia tra un modello che permetta la scissione del binomio crescita economica-emissioni o un netto taglio alla crescita economica nei termini che conosciamo. Ça va sans dire: la decisione deve forzatamente ricadere sulla prima opzione, con tutte le difficoltà e le incognite che essa impone. Basti pensare che per raggiungere gli obiettivi di sostenibilità fissati al 2050, le correnti proiezioni sulla crescita globale della popolazione e PIL pro-capite impongono una riduzione media di emissioni di CO2 per unità di PIL reale pari al 9% annuo, mentre nell’ultimo trentennio tale tasso è sceso solo dell’1,8% su base annua.

Scienza forte ma politica debole

Se sulla necessità dell’azione climatica il campanello d’allarme suonato dalla scienza è forte e costante, ancorché azionato ormai da tempo, il livello di ricettività della politica a livello globale, componente fondamentale per il disegno e l’implementazione di strategie volte alla transizione verso un modello sostenibile, rimane insufficiente. Se i Paesi industrializzati stanno muovendo, sia pure in modo disomogeneo, alcune leve per ridurre le emissioni, i Paesi in via di sviluppo, con il gigante India in testa, pur riconoscendo l’importanza e la pericolosità del problema, non sono in grado o non intendono frenare uno sviluppo economico che rappresenta ancora la priorità assoluta. Posizioni che, peraltro, non è pacifico contrastare dato che, come ricorda l’IPCC, le emissioni cumulative storiche, “fonte della crisi climatica che il mondo deve affrontare oggi”, sono in massima parte riconducibili ai Paesi sviluppati. 

Sul piano dell’azione politica, un segnale importante arriva certamente dall’Unione Europea che, a settembre 2020, ha fissato come obiettivo al 2030 una riduzione delle emissioni pari al 55% rispetto al 1990, alzando l’asticella rispetto al 40% fissato in precedenza. Obiettivo che si è prefissata raggiungere attraverso piani ambiziosi come il Fit for 55 Package, lanciato a luglio 2021, e puntando a una forte spinta per il rilancio economico basato sulle tecnologie green (Next Generation EU).

Ancor più che sul piano della riduzione effettiva delle emissioni – la quota parte europea è pari al 9% delle emissioni globali – la posizione dell’Unione Europea segna un confine netto nel campo della politica, a dimostrazione che la determinazione condivisa a perseguire obiettivi ambiziosi per un’efficace azione climatica è possibile; recusando, inoltre, la convinzione che ridurre le emissioni significa sacrificare lo sviluppo. Dal 1990, infatti, le emissioni si sono ridotte del 23% a fronte di una crescita del PIL del 60%, una quota non ancora sufficiente per raggiungere gli obiettivi prefissati ma che sovverte il trend di proporzionalità tra crescita economica ed emissioni.

Un modello di cambiamento sistemico

Se la decrescita economica per il raggiungimento degli obiettivi climatici non è in nessun caso un’opzione, è necessario un impegno comune per la formulazione di un modello di cambiamento sistemico che sia puntuale e sostenibile dal punto di vista economico, nonché equo da un punto di vista sociale. Tale cambio sistemico passa forzatamente da elementi fondanti quali ad esempio la capacità di investire massivamente nella decarbonizzazione dei sistemi energetici, soprattutto con investimenti pubblici, per la realizzazione di nuove infrastrutture energetiche e per facilitare lo sviluppo di tecnologie green disruptive per la rimozione dei gas-serra dall’atmosfera.

Decarbonizzazione che, per l’appunto, non può che realizzarsi a partire dal sistema energetico, punto di partenza e di arrivo della transizione. L’impatto che un sistema energetico globale a basso o nullo consumo di fonti fossili avrebbe sugli altri settori della nostra società, data la loro interconnessione, è tanto positivo quanto difficilmente quantificabile, considerata la reazione a cascata che tale transizione avrebbe su tutti i vettori socioeconomici ad esso collegati. I processi che portano a questo passaggio sono innumerevoli e parzialmente sconosciuti.

L’elettrificazione degli usi finali e dei settori economici è certamente rilevante a questo fine, così come la capacità di creare sistemi energetici in grado di passare attraverso differenti fonti di generazione (i sistemi smart), così da fornire soluzioni low-carbon economiche e affidabili. Le fonti rinnovabili rappresentano senza dubbio la base del nuovo paradigma uomo-energia, ma in termini temporali ed economici sono ancora difficili da quantificare, a causa dei limiti di sviluppo e di affidabilità di alcune tecnologie. 

Il rapporto tra costo e competitività delle tecnologie di decarbonizzazione rappresenta un ulteriore fattore di cruciale importanza. Il settore privato gioca certamente un ruolo fondamentale nel superamento di tali limiti: appare dunque necessaria la creazione di adeguati incentivi che facilitino gli investimenti da parte di soggetti privati in ricerca, sviluppo e innovazione tecnologica.

Infine, occorre accennare a un tema troppo spesso trascurato, quello dell’adattamento ai cambiamenti climatici. Le tempistiche e gli investimenti necessari per la realizzazione di un avanzamento tecnologico tale da accelerare e consolidare un’economia a basso impatto carbonico, uniti alle difficoltà del coinvolgimento dei principali soggetti emettitori in politiche climatiche comuni e validate da evidenze scientifiche, fanno della necessità di adattarsi una virtù fondamentale da perseguire per la comunità internazionale. Dimenticarsene sarebbe un errore imperdonabile, causa di prevedibili quanto ingenti costi economici e sociali.

Alessandro Lanza è Direttore esecutivo della Fondazione Eni Enrico Mattei (FEEM).

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