La nuova globalizzazione

31-08-2022 | News

di Antonio Acunzo

Negli ultimi due-tre anni, la pandemia globale, la disruption nelle supply-chain e l’invasione russa dell’Ucraina sono tra i principali fattori che hanno fortemente contribuito a ridisegnare la mappa delle relazioni geopolitiche ed economiche a livello globale, modificando le priorità sia di tipo geopolitico che di tipo geoeconomico.

La globalizzazione non è più, infatti, un fenomeno guidato solo dall’economia ma si inserisce in un contesto nuovo dove domina il rischio politico: “Freedom is more important than free trade”, ha dichiarato Jens Stoltenberg, segretario della NATO, e con questo principio si riconfigura la nuova globalizzazione sulla base di nuove relazioni tra Paesi percepiti come “amici” e di nuove alleanze politiche, economiche e militari come conseguenza della complessa frattura che contrappone oggi il fronte dei Paesi occidentali al fronte della nuova alleanza russo-cinese.

Una prima reazione, nel confronto tra le due principali potenze economiche, USA e Cina, è stata quella del reshoring da parte delle imprese americane in Cina che hanno progressivamente limitato o sospeso espansione e investimenti sia ri-trasferito la propria capacità produttiva negli USA, più che compensando gli iniziali costi con la proiezione di benefici di lungo periodo, quali ridotto lead time, abbattimento delle tariffe doganali, miglior qualità del prodotto made in USA, più efficace logistica distributiva.

Una seconda reazione è stata quella del nearshoring, diversificando la produzione sulla scia del precedente modello detto “Cina+1”, che prevedeva di non concentrare gli investimenti solo in Cina ma di valutare soluzioni alternative in mercati dove, a fronte di costi ridotti di produzione, si potesse contare anche sul forte mercato interno dei consumi (come nel caso di Vietnam e Malaysia). E di considerare un modello simile denominato “USA+1” che, però, in questo caso fa riferimento non a uno, ma a tre mercati vicini agli Stati Uniti: Messico (che con USA e Canada fa parte dell’accordo di free trade USMCA, nuova versione del precedente NAFTA), Repubblica Dominicana e Puerto Rico (che è unincorporated territory degli Stati Uniti). La globalizzazione rimane, quindi, come funzione essenziale della crescita economica ma cambiano la geografia e le modalità di sviluppo.

Oggi il nuovo scenario globale, di fatto il confine del nuovo marketplace filo-occidentale, vede un asse atlantico guidato dagli USA con Gran Bretagna e Unione Europea che si rafforza nell’ambito dei Paesi legati alla NATO, ma anche a quelli considerati amici e filo-occidentali (dato che hanno applicato le sanzioni economiche alla Russia) e che include Australia, Nuova Zelanda, Giappone, Sud Corea, Singapore e Taiwan.

La Russia tende a tramontare come mercato di interesse per le imprese occidentali (oltre 300 aziende estere hanno cessato ogni attività e sospeso i collegamenti aerei con la Russia), mentre rimane solo il vincolo della dipendenza energetica, vincolo che si punta a rimuovere gradualmente.

Si forgiano, così, nuove alleanze tra blocchi di Paesi accomunati da interessi e principi comuni condivisi. Il presidente americano Biden ha lanciato nel maggio scorso l’IPEF (Indo-Pacific Economic Framework), una partnership strategica tra USA e 13 Paesi che rappresentano complessivamente il 40% del PIL mondiale (7 dell’ASEAN marketplace + Australia, Nuova Zelanda, India, Japan, Sud Corea e Fiji). Il primo obiettivo è la diversificazione delle fonti di approvvigionamento per ridurre la dipendenza dalla Cina,  avvalendosi delle risorse dei 7 paesi ASEAN (Brunei, Indonesia, Malaysia, Filippine, Singapore, Thailandia e Vietnam), il nuovo hub manufatturiero sviluppato dal reshoring dalla mainland China e dal riposizionamento della supply-chain. 

L’accordo IPEF ha come obiettivo soprattutto quello di ridefinire le regole della nuova economia globale del 21° secolo, basate su quattro temi fondamentali per l’avanzamento degli standard legati al mondo del lavoro e alla sostenibilità ambientale:

  • commercio equo e resiliente e corretta conduzione degli scambi tra i Paesi membri;
  • resilienza nella supply chain (la cui funzionalità implica aspetti di sicurezza nazionale per i Paesi che necessitano di superare le dipendenze di approvvigionamento);
  • connettività digitale, infrastrutture, energie rinnovabili e decarbonizzazione
  • fiscalità e lotta alla corruzione.

A differenza del mai decollato TPP (Trans Pacific Partnership), fortemente voluto dal presidente Obama e poi cassato nel 2017 dalla presidenza Trump, e che si è evoluto autonomamente e senza gli USA nel 2018 nell’accordo di libero scambio CPTPP (Comprehensive and Progressive Agreement for Trans Pacific Partership) tra 11 paesi (Australia, Brunei, Canada, Cile, Giappone, Malaysia, Messico, Nuova Zelanda, Perù, Singapore e Vietnam), l’IPEF non prevede al momento una riduzione/liberalizzazione delle tariffe doganali né è inteso essere un accordo di libero scambio. Ma l’elemento differenziale e qualitativo di questo accordo pone le basi per regolamentare principalmente gli interessi di sicurezza degli USA e dei suoi alleati ed è proprio su questa base che si distingue dal RCEP, l’iniziativa di free trade voluta dalla Cina, centralizzato sui 10 paesi ASEAN e allargato a Giappone, Corea del Sud, Australia e Nuova Zelanda, che di fatto si basa solo sul libero scambio escludendo in toto le tematiche IPEF e che funge da base di lancio per l’espansionismo coloniale cinese.

Dopo l’IPEF, lo stesso Biden ha lanciato l’I2U2, a Gerusalemme nel luglio scorso, la nuova cooperazione di investimenti e iniziative tra India, Israele, UAE e USA, per collaborare nei progetti in campo energetico, di sicurezza, di approvvigionamento di risorse alimentari, trasporti, spazio, salute e acqua. Si prevede anche una futura possibile espansione, l’I2U2 Plus, che includerebbe Egitto e Arabia Saudita, al fine di un bilanciamento di potere per il mantenimento di pace e sicurezza in Medio Oriente, oltre che per ri-energizzare e rivitalizzare le alleanze americane principalmente con l’India. Allo scopo di contrastare l’influenza cinese in un Paese che rappresenta un primario mercato di consumo in chiara rivalità con la Cina.

Antonio Acunzo è CEO di MTW GROUP e Chairman di ITALYUS™.

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