Le nuove frontiere del nomadismo digitale

22-09-2022 | News

La pandemia ha accelerato forme di lavoro innovative e complesse, basate su un uso sapiente del tempo e dello strumento digitale, destinate a permanere anche in futuro. Non si tratta, però, di banale remotizzazione del lavoro, ma di modalità del tutto nuove che il digitale rende possibili.

di Andrea Granelli

Il concetto di Long CoVid – le conseguenze sulla salute di chi è stato contagiato dal CoVid e cioè i problemi che permangono anche dopo la scomparsa dei sintomi acuti – non è solo una novità drammatica di questa malattia particolamemente subdola, ma è anche una potente metafora che ci ricorda che gli impatti sul mondo del lavoro del distanziamento sociale e dei rischi futuri di nuove pandemie, unite a una sempre più potente e diffusa rivoluzione digitale, saranno non solo duraturi ma anche a rilascio progressivo.

Sappiamo bene che il digitale, unito alle trasformazioni organizzative, aveva già reso i confini delle aziende molto meno definiti e più porosi. Ora – dopo questo lungo periodo di distanziamento sociale forzato – la differenza fra dipendenti, precari, consulenti, freelance e fornitori è ancora più labile. Oltre tutto, la necessità di lanciare processi di radicale trasformazione nelle aziende per adattarsi a mercati sempre più mutevoli sta non solo trasformando il cambiamento in una nuova forma di permanenza, ma sta richiedendo in modo continuativo – quasi stabilizzato – rinforzi esterni ai processi di cambiamento (progettisti digitali, designer organizzativi, valutatori e formatori di competenze, coach, …).

Per questi motivi è riduttivo parlare di smart work che, in questo periodo, si è generalmente esplicitato nel lavorare fuori dall’ufficio con un po’ di supporto di strumenti digitali (talvolta era sufficiente il telefono e qualche applicazione standard sul proprio PC) e facendo sostanzialmente ciò che si era sempre fatto.

La questione che però si sta ponendo è concepire momenti più o meno lunghi di lavoro fuori dall’ufficio, spesso neanche nello stesso luogo, svolgendo insieme ai colleghi attività che non necessariamente si facevano prima. Sarebbe allora opportuno incominciare a parlare di “nomadismo digitale”, che si basa su due importanti capacità: 

  • usare al meglio le nuove piattaforme digitali e le potenzialità del mondo dei dati; 
  • saper lavorare – dovunque – senza perdere in efficienza e in efficacia.

Questa forma di lavoro richiederà di ripensare a molte pratiche operative, ad esempio le riunioni, e soprattutto di avere una nuova sensibilità per gestire una delle risorse più pregiate che l’azienda assegna a un manager: il tempo, suo e dei suoi collaboratori. Quel tempo sempre più prezioso, che gli strumenti digitali hanno promesso di dilatare ma che, invece, è divantato sempre più compresso. Ha colto questa dinamica con acutezza Elias Canetti in La provincia dell’uomo: «Tutto divenne più rapido, perché ci fosse più tempo. C’è sempre meno tempo». Tempo che lo smart work ha reso ancora più scarso e deperibile con interminabili (e spesso inutili) riunioni senza pause.

Le due vite del manager

Oltre a un’abile gestione del tempo e per cogliere al meglio le opportunità offerte dalla diffusione sempre più spinta e pervasiva del digitale i manager devono anche diventare manager anfibi, manager cioè dalle due vite (questo è il significato del termine greco), abili nel muoversi a loro agio sia nell’ambiente fisico che in quello digitale e capaci, grazie a specifiche abilità digitali, di gestire, anche per periodi prolungati, le emergenze che richiedono distanziamento sociale, senza però degradare in nessun modo la qualità delle loro prestazioni manageriali. Capaci, dunque, di praticare, ogni qualvolta le circostanze lo richiedano, il nomadismo digitale. Manager che non vengono a compromessi con il digitale (come invece l’espressione ibrido – spesso usata per descrivere questa coesistenza dei due mondi – tende a suggerire) ma si sdoppiano per avere il massimo dai due ambienti, quello fisico e quello virtuale, in quanto li considerano due aspetti dello stesso universo, le due dimensioni dell’onlife – per riprendere la felice espressione coniata da Luciano Floridi – dove «reale e virtuale si (con)fondono».

Tutto ciò richiede che il manager padroneggi tre competenze operative, sempre più critiche man mano che la rivoluzione digitale si diffonde:

  • gestire e interpretare sia i big che gli small data;
  • comunicare tramite schermo;
  • organizzare il proprio zaino digitale.

Mi soffermerò sulle ultime due, visto che sull’importanza dei dati e sulle competenze necessarie molto si è scritto.

Innanzitutto, la comunicazione tramite ambienti digitali. Non si tratta di semplici interazioni remotizzate ma di nuove modalità di comunicazione mediate dallo schermo; per questo motivo sarebbe più opportuno parlare di comunicazione schermizzata. Comunicare con efficacia tramite video richiede di padroneggiare le specificità di questa forma di comunicazione, cononscendo ad esempio gli effetti cognitivi del framing che lo schermo/cornice provoca, i particolari effetti narrativi originati dal montaggio cinematografico (svelati dal termine tecnico che gli esperti utilizzano: illusione diegetica), l’importanza delle informazioni veicolate dallo sfondo dietro la nostra immagine video e, soprattutto, le specificità di quella che potremmo definire la prossemica digitale: le possibili distorsioni della voce legate alla connettività, gli effetti deformanti della telecamera, il disallineamento pupilla-telecamera che consente di guardare negli occhi l’interlocutore senza essere percepiti come sfrontati…

Una video-comunicazione non è una semplice comunicazione tramite video. Per essere efficaci e persuasivi non è sufficiente imparare a usare Zoom o Microsoft Teams. Dobbiamo padroneggiare le specificità richieste da una comunicazione digitale. Ad esempo saper usare, ove possibile, il potere emotivo delle immagini e del colore, saper padroneggiare durante la comunicazione digitale i suoni, il ritmo e anche il silenzio, saper controllare e usare lo sguardo, la mimica facciale e i nostri gesti per canalizzare l’attenzione o sottolineare punti importanti del nostro discorso. Ma anche pianificare correttamentre la luce che ci illumina e lo sfondo dietro di noi e assicurarci una buona inquadratura.

Il contesto comunicativo digitale ha infatti due specificità importanti:

  • mette a disposizione strumenti molto potenti grazie alla continua innovazione delle piattaforme e dei contenuti digitali;
  • avviene in un ambiente impoverito dal punto di vista degli stimoli che possamo cogliere e inviare.

Per questi motivi un comunicatore – se vuole eccellere in questa forma di comunicazione e “bucare lo schermo” – deve anche saper andare oltre la parola detta e riuscire a sfruttare ogni informazione, ogni appiglio, ogni tecnica comunicativa per dilatare e ampliare una comunicazione che si è fatta più compressa, quasi claustrofobica. Dev’essere, dunque, innanzitutto un comunicatore eccellente e pienamente consapevole di ciò che la sua comunicazione determina. Ciò richiede anche di saper leggere fra le righe e oltre gli sguardi per cogliere il non detto, il pensato-ma-non-manifestato e soprattutto richiede di prepararsi prima dell’incontro con molta attenzione.

Quando facciamo una proposta che speriamo venga approvata non possiamo basare la nostra comunicazione solo sulle reazioni di chi ci ascolta. Infatti, se queste reazioni sono negative, è troppo tardi verificarlo durante la presentazione. Dobbiamo necessaramente anticiparle, pre-vederle. Non è un caso che i preveggenti dell’antichità – uno per tutti Tiresia – fossero ciechi. In quanto forzati a vivere in ambienti con pochi stimoli, dovevano rafforzare le loro capacità non solo di cogliere ogni minimo dettaglio, ma soprattutto di anticipare ciò che sarebbe capitato, di comprenderne le possibili implicazioni.

In secondo luogo, lo zaino digitale. La sfida, oggi, non è solo continuare ad apprendere ma è anche – forse soprattutto – ricordarsi quanto si è appreso e riutilizzare, non da pappagallo ma in modo creativo e combinatorio, quanto si dovrebbe ricordare. Seneca consegna al suo allievo Lucilio questo importante consiglio:

“È ormai tempo che uno poggi su se stesso, che esprima questi pensieri con parole sue e non a memoria… «Questo l’ha detto Zenone». E tu che dici? Fino a quando ti muoverai sotto la guida di un altro? Prendi tu il comando ed esprimi anche qualcosa di tuo, che altri mandino a memoria”.

(Lettera a Lucilio n.33)

Il rischio di dimenticarsi è quasi una certezza; basta pensare all’information overload della società digitale che crea stanchezza cognitiva e al progressivo invecchiamento che riduce progressivamente il numero dei neuroni. E quando ricordiamo poco e male non solo perdiamo informazioni preziose ma rischiamo anche di prendere decisioni in base alle ultime informazioni e conoscenze che ci ricordiamo, non necessariamente le più pertinenti.

Serve dunque un metodo in grado di strutturare un processo di raccolta sistematica di ciò che ci colpisce; ma serve anche un contenitore che raccolga questa conoscenza e la (ri)organizzi per consentirne non solo la conservazione e il facile reperimento ma anche – e soprattutto – il (ri)utilizzo, idealmente in forma creativa. Un contenitore in grado di organizzare i contenuti digitali e renderli accessibili tramite la Rete, in qualunque momento e dovunque ci troviamo.

Un esploratore esperto non affronterebbe mai un viaggio senza uno zaino con tutto il necessario, anche per gestire gli imprevisti. Lo stesso vale per il nomade digitale, in grado di lavorare dovunque e per lunghi periodi. Questo contenitore/strumento digitale della nostra conoscenza – o meglio lo “zaino digitale” – è dunque vitale e condizione necessaria per un autentico nomadismo digitale. Questa espressione si origina dalla potente metafora dello zaino, usata da George Clooney nel celebre discorso dello zaino uno dei climax del film Tra le nuvole di Jason Reitman (2009).

Questo contenitore personale digitale deve quindi contenere idee, informazioni, brani di libri che ci hanno colpito, appunti sparsi o materiale grezzo su cui stiamo lavorando, ma anche ricordi, curiosità: un contenitore dunque realizzato come sito web, uno spazio accessibile dovunque ci sia un collegamento alla Rete.

Digital Intelligence

Le capacità descritte e il nomadismo digitale presuppongono inoltre una competenza digitale di baseassolutamente necessaria per guidare e operare nel futuro contesto competitivo, caratterizzato da una presenza sempre più massiccia e diffusa di strumenti, logiche e prassi di lavoro derivate dal digitale. Non una semplice alfabetizzazione ma una capacità complessa e articolata che potremmo chiamare digital intelligence. Un’abilità, unita a un sistematico pensiero critico, che ci metta in grado di muoverci a nostro agio negli ambienti digitali dove, tra l’altro, le competenze soft – inseparabili anzi blended con quelle hard – diventano sempre più importanti. Una intelligence – e la scelta di questo termine inglese non è casuale – dove la padronanza del digitale non sia legata solo alla conoscenza di procedure, strumenti e app ma sappia cogliere anche l’intima interrelazione fra intelligenza e informazione. La rivoluzione dei dati – big e small – ha infatti una intima connessione con il digitale: lo presuppone e lo alimenta.

Siamo dunque solo agli inizi di una trasformazione del mondo del lavoro potente e diffusa, orientata e plasmata dal digitale e caratterizzata da percorsi non necessariamente lineari e progressivi. Vedremo dunque deviazioni e ripensamenti ma la direzione finale è ormai definita. Il digitale sarà sempre più presente nel mondo del lavoro e la digital intelligence e il nomadismo digitale sarano per i manager competenze assolutamente critiche.

Andrea Granelli è fondatore e presidente di Kanso (consulenza nell’innovazione e change management). 

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