C’è chi ci crede incondizionatamente. Ma per qualcuno è un’utopia
di Thomas Stackpole
Vi ricordate la prima volta che avete sentito parlare dei bitcoin? Probabilmente, era solo un vago accenno a una nuova tecnologia che avrebbe potuto cambiare tutto. Forse avete temuto per un attimo di restare tagliati fuori, mentre chi li acquistava per tempo avrebbe accumulato quasi da un giorno all’altro una piccola fortuna. O forse vi siete solo domandati se non avreste dovuto avere una strategia sulle criptovalute nell’eventualità che decollassero effettivamente.
Molto probabilmente, non appena siete venuti a conoscenza del fenomeno c’è stato un crollo della nuova moneta virtuale. Ogni uno o due anni, il valore del bitcoin cala vistosamente. Ogni volta che succede, gli scettici lo danno immediatamente per morto, dicendo che era sempre stato una trappola per gonzi e un meccanismo perverso ideato da tecno-libertari e persone che odiano le banche. Dicono che non aveva mai avuto un futuro accanto alle vere aziende tecnologiche, poi se ne dimenticano e tornano alla loro vita di tutti i giorni. E poi, il bitcoin torna a salire. Oggi sembra essere dappertutto. Le criptovalute, tuttavia, sono solo la punta dell’iceberg. La tecnologia sottostante, la blockchain, viene definita un “libro mastro distribuito” – un database gestito da una rete di computer anziché da un unico server – che offre agli utilizzatori un modo immutabile e trasparente per immagazzinare le informazioni.
Oggi la blockchain viene impiegata a nuovi fini: ad esempio, per creare “certificati di proprietà”, che attestano la titolarità di oggetti digitali unici – i cosiddetti non fungible token (NFT). Gli NFT sono esplosi nel 2022, creando apparentemente dal nulla un mercato che vale 41 miliardi di dollari. Beeple, per esempio, ha fatto sensazione l’anno scorso quando l’NFT di una sua opera d’arte è stato battuto all’asta da Christie’s per 69 milioni di dollari. Parenti ancora più esoterici come i DAO, acronimo di “decentralized autonomous organizations”, operano come aziende prive di gerarchie: raccolgono e spendono soldi, ma tutte le decisioni vengono sottoposte alla votazione dei soci e vengono attuate in base a regole codificate. Una DAO ha raccolto recentemente 47 milioni di dollari nel tentativo di acquistare una rara copia della Costituzione degli Stati Uniti. I sostenitori della DeFi (o “decentralized finance”, che mira a ricostruire il sistema finanziario globale) stanno facendo pressioni sul Congresso e promettono un futuro senza banche.
L’insieme di questi sforzi va sotto il nome di “Web3”. È una comoda abbreviazione del progetto finalizzato a riprogrammare le modalità di funzionamento della Rete, utilizzando la blockchain per cambiare il modo in cui le informazioni vengono archiviate, condivise e possedute. In teoria, un Web basato sulla blockchain potrebbe infrangere i monopoli che governano il controllo delle informazioni, la distribuzione della ricchezza e persino le modalità di lavoro di network e grandi imprese. I suoi fautori affermano che il Web3 creerà nuove economie, nuove categorie di prodotti e nuovi servizi online; che riporterà la democrazia nella Rete; e che definirà la nuova era di Internet.
O è solo un’utopia? Pur essendo innegabile la convergenza di energie, denaro e talenti in atto su progetti Web3, ricostruire Internet è un’impresa immane. Nonostante tutte le sue promesse, la blockchain deve ancora superare i grossi ostacoli tecnici, ambientali, etici e normativi che la separano dall’egemonia. Un coro sempre più numeroso di scettici mette in guardia l’opinione pubblica, spiegando che il Web3 è corrotto dalla speculazione, dal furto e da problemi di privacy e che la tendenza alla centralizzazione e alla proliferazione di nuovi intermediari sta già annacquando l’idea utopistica di un Web decentrato.
Nel frattempo, imprese e leader stanno cercando di valutare il potenziale – e le insidie – di un panorama in rapido cambiamento, potenzialmente in grado di pagare grossi dividendi alle organizzazioni che agiranno nel modo giusto. Molte imprese stanno testando il Web3 e, mentre alcune hanno ottenuto grossi successi, parecchie aziende di alto profilo (o i loro clienti) stanno scoprendo che non fa per loro. La maggior parte della gente, peraltro, non sa nemmeno cosa sia veramente il Web3: in un sondaggio informale condotto su LinkedIn nel marzo 2022, quasi il 70% ha detto di non sapere cosa significa questa espressione.
Benvenuti nel mondo ambiguo, contrastato, utopistico, truffaldino, democratizzatore e (forse) decentralizzato del Web3. Ecco cosa dovete sapere.
Dal Web1 al Web3
Per darvi un’idea più precisa di che cosa sia il Web3, vi faccio un piccolo riassunto.
All’inizio c’era Internet: l’infrastruttura fisica di cavi e server che consente ai computer, e a chi li manovra, di dialogare tra di loro. L’ARPANET del governo americano inviò il suo primo messaggio nel 1969, ma il web così come lo conosciamo oggi non è entrato in funzione fino al 1991, quando il linguaggio HTML e gli URL hanno messo gli utilizzatori in condizione di navigare tra pagine statiche. Consideratelo il web di sola lettura, o Web1.
Nei primi anni 2000, le cose hanno cominciato a prendere un’altra piega. Tanto per cominciare, Internet stava diventando più interattivo; era un’epoca di contenuti generati dagli utenti, ossia quello che si potrebbe definire il web di lettura e scrittura. I social media erano una caratteristica fondamentale del Web2 (o Web 2.0, come viene chiamato più comunemente) e Facebook, Twitter e Tumblr sono venuti a definire questa nuova esperienza di utilizzo della Rete. YouTube, Wikipedia e Google, oltre a consentirci di pubblicare commenti sui contenuti, hanno accresciuto la nostra capacità di guardare, imparare, cercare e comunicare.
L’era del Web2 si basava anche sulla centralizzazione. Effetti network ed economie di scala hanno prodotto dei vincitori indiscutibili e quelle aziende (molte delle quali elencate in precedenza) hanno prodotto a loro volta una ricchezza strabiliante per se stesse e per gli azionisti, raccogliendo dati sugli utilizzatori e poi vendendo annunci pubblicitari mirati sul loro profilo individuale. Ciò le ha messe in condizione di offrire servizi “gratuiti”, anche se all’inizio gli utenti non si rendevano delle implicazioni effettive di questo scambio. Il Web2 ha creato anche occasioni di arricchimento per persone comunissime, specie attraverso l’economia della condivisione e il ruolo talora estremamente redditizio di influencer.
Ci sono molti aspetti da criticare nel sistema in essere: le aziende che godono di un quasi monopolio non l’hanno sempre usato responsabilmente; i consumatori, che hanno ormai capito di essere il prodotto, sono sempre meno disposti a cedere il controllo dei loro dati personali; ed è possibile che l’economia basata sui messaggi pubblicitari personalizzati sia una bolla fragile che non rende più di tanto agli inserzionisti.
Arriviamo così al Web3. I fautori di questa visione la presentano come un miglioramento radicale destinato a emendare i problemi e gli incentivi perversi del Web2. Vi preoccupate per la privacy? Portadocumenti criptati proteggono la vostra identità virtuale. Temete la censura? Un database decentralizzato immagazzina tutto quanto in modo immutabile e trasparente, impedendo ai moderatori di interferire per cancellare eventuali contenuti impropri. Vi spaventa la centralizzazione? Avete pieno diritto di voto sulle decisioni prese dai network su cui trascorrete il vostro tempo. Ma soprattutto, ottenete una partecipazione che vale qualcosa – non siete prodotti ma proprietari. È la visione del web di lettura, scrittura e proprietà.
OK, ma che cos’è il Web3?
I semi di quello che sarebbe diventato il Web3 sono stati piantati nel 1991, quando i ricercatori W. Scott Stornetta e Stuart Haber hanno lanciato la prima blockchain – un progetto per la marcatura temporale dei documenti digitali. Ma l’idea non ha preso veramente piede fino al 2009, quando è stato lanciato il bitcoin all’indomani della crisi finanziaria (e almeno parzialmente in risposta a essa) dall’inventore che si nascondeva sotto lo pseudonimo di Satoshi Nakamoto. La moneta virtuale per antonomasia, e la tecnologia su cui si fonda, funzionano così: la proprietà della criptovaluta viene rilevata su un libro mastro pubblico condiviso e, quando un utilizzatore vuole effettuare un trasferimento, gli “operatori” processano la transazione risolvendo un problema matematico complesso mediante il quale aggiungono un nuovo “blocco” di dati alla catena e vengono ricompensati con bitcoin di nuova creazione. Mentre la catena del bitcoin viene usata solo per i pagamenti, blockchain più recenti offrono altre opzioni. Ethereum, che è stata lanciata nel 2015, è al tempo stesso una criptovaluta e una piattaforma che si può usare per costruire altre criptovalute e altri progetti basati sulla blockchain. Gavin Wood, uno dei suoi cofondatori, ha definito Ethereum “un solo computer per l’intero pianeta” la cui capacità di elaborazione è distribuita su tutto il pianeta e non viene controllata in nessun posto. Oggi, dopo più di un decennio, i sostenitori di un web basato sulla blockchain dichiarano che siamo agli albori di una nuova era – il Web3.
Semplificando al massimo, il Web3 è un’estensione della criptovaluta, che usa la blockchain in modi nuovi e a nuovi fini. Una blockchain può registrare il numero di token contenuti in un portafoglio, le condizioni di un contratto che si autoesegue, o il codice di un’app decentralizzata (dApp). Non tutte le blockchain funzionano nello stesso modo, ma in linea generale le monete vengono usate come incentivi per gli operatori che processano le transazioni. Su catene “proof of work” come Bitcoin, risolvere i complessi problemi matematici necessari per processare le transazioni è compito strutturalmente ad alto impegno mentale ed energetico. Sulle catene “proof of stake”, che sono più recenti ma sempre più diffuse, la processazione delle transazioni richiede agli operatori semplicemente una verifica di legittimità – un lavoro molto più efficiente. In entrambi i casi, i dati sulle transazioni sono pubblici, anche se i portafogli degli utilizzatori vengono identificati solo da un indirizzo generato crittograficamente. Le blockchain sono “solo in scrittura” – vuol dire che si possono aggiungere dati, ma non si possono cancellare.
Il Web3 e le criptovalute si basano su blockchain “permissionless”, che non hanno nessun controllo centralizzato e non impongono agli utilizzatori di fidarsi di altri utilizzatori (e nemmeno di conoscerli) per fare affari con loro. È sostanzialmente ciò che intendono le persone quando parlano della blockchain. «Il Web3 è un Internet di proprietà dei costruttori e degli utilizzatori, orchestrato dai token», dice Chris Dixon, partner della società di venture capital a16z e uno dei primi sostenitori del Web3, oltre che uno dei maggiori investitori in questa nuova tecnologia, prendendo in prestito una definizione del consulente specializzato Packy McCormick. È una rivoluzione perché viene a modificare una dinamica fondativa del web di oggi, in cui le aziende estraggono dagli utilizzatori tutti i possibili dati. Token e proprietà condivisa, spiega Dixon, risolvono «il problema critico dei network centralizzati, dove il valore viene accumulato da una sola azienda, che poi finisce per combattere contro i suoi utilizzatori e contro i suoi partner».
Nel 2014, Wood di Ethereum ha scritto un post storico in cui delineava la sua visione della nuova era. Il Web3 è una “re-immaginazione delle cose per cui usiamo già il web, ma con un modello radicalmente diverso per l’interazione tra le parti”, osservava. “Le informazioni che riteniamo siano di pubblico dominio, le pubblichiamo. Le informazioni che assumiamo siano condivise, le mettiamo su un registro di condivisione del consenso. Le informazioni che consideriamo siano private, le teniamo segrete e non le riveliamo mai”. In questa visione, tutte le comunicazioni sono criptate, e le identità sono nascoste. “In poche parole, organizziamo il sistema in modo da imporre matematicamente i nostri assunti precedenti, perché non ci si può fidare ragionevolmente di nessun Governo o di nessuna organizzazione”.
Da allora l’idea si è evoluta e sono cominciati ad affiorare nuovi casi d’uso. Il servizio in streaming Web3 Sound.xyz promette condizioni più favorevoli per gli artisti. Videogiochi che si basano sulla blockchain, come l’emulo dei Pokémon Axie Infinity, consentono agli utilizzatori di guadagnare soldi intanto che giocano. I cosiddetti “stablecoin”, il cui valore è agganciato al dollaro, all’euro o a qualche altro riferimento esterno, sono stati presentati come strumenti migliorativi del sistema finanziario globale. E le criptovalute hanno preso piede come soluzione per i pagamenti internazionali, specie per gli utilizzatori che operano in ambienti instabili.
«La blockchain è un nuovo tipo di computer», mi ha detto Dixon. Proprio come ci sono voluti anni per capire la misura in cui PC e smartphone hanno trasformato il nostro modo di usare la tecnologia, la blockchain ha avuto una lunga fase di incubazione. Oggi, aggiunge, «penso che potremmo essere nel periodo aureo del Web3, con tutti gli imprenditori che ci stanno entrando». Anche se al centro dell’attenzione ci sono stati soprattutto i prezzi folli delle transazioni, come nel caso della vendita di Beeple, la storia è più complessa. «La stragrande maggioranza delle operazioni che vedo sono molto più modeste e incentrate su comunità specifiche», osserva – come nel caso di Sound.xyz. Mentre il numero degli utilizzatori era un indicatore critico di successo per un’azienda del Web2, il coinvolgimento degli utilizzatori è un indicatore più attendibile di ciò che potrebbe rappresentare il successo nel Web3.
Dixon sta scommettendo forte su questo futuro. Lui e a16z hanno iniziato a puntare sul nuovo business nel 2013 e l’anno scorso hanno investito 2,2 miliardi di dollari in aziende del Web3. Il numero di sviluppatori attivi al lavoro sulla codifica del Web3 é pressoché raddoppiato nel 2021, a quasi 18.000 – non un numero stratosferico a livello globale, ma comunque considerevole. Ma la notazione più importante è che i progetti Web3 sono entrati a far parte dello spirito dei tempi, e la suggestione è innegabile.
Ma come ci ricordano startup di alto profilo che si sono auto immolate, come Theranos e WeWork, l’interesse del pubblico non è tutto. Ma cosa accadrà adesso? E a cosa dovreste prestare attenzione?
Cosa potrebbe significare il Web3
Il Web3 presenterà alcune differenze fondamentali rispetto al Web2: gli utilizzatori non avranno bisogno di login separati per tutti i siti che visitano, ma useranno invece un’identità centralizzata (probabilmente il portadocumenti criptato) che contiene tutte le loro informazioni. Avranno più controllo sui siti che visiteranno, perché guadagneranno o compreranno dei “gettoni” che consentiranno loro di votare sulle decisioni o di sbloccare delle funzionalità.
Non è ancora chiaro se il prodotto sarà veramente all’altezza delle aspettative. Le previsioni su come potrebbe apparire il Web3 una volta a regime sono solo congetture, ma alcuni progetti hanno raggiunto dimensioni di tutto rispetto. The Bored Ape Yacht Club (BAYC), NBA Top Shot e il colosso del cryptogaming Dapper Labs hanno costruito comunità di successo intorno agli NFT. Stanze di compensazione come Coinbase (per l’acquisto, la vendita e la conservazione di criptovalute) e OpenSea (il più grande mercato digitale per crypto collectibles e NFT) hanno creato rampe di accesso al Web3 per persone che non hanno un know how tecnico sufficiente.
Mentre aziende come Microsoft, Overstock e PayPal accettano criptovalute da anni, gli NFT – che ultimamente sono diventati molto popolari – sono il mezzo principale con cui i brand stanno sperimentando il Web3. In termini pratici, l’NFT è una via di mezzo tra un attestato di proprietà, un certificato di autenticità e una tessera associativa. Può conferire la “proprietà” di opere d’arte digitali (di solito la proprietà viene registrata sulla blockchain e un link porta a un’immagine situata da qualche parte) o i diritti di accesso a un determinato gruppo. Gli NFT possono operare su una scala più ridotta rispetto alle monete perché creano dei loro ecosistemi e non richiedono nient’altro che una comunità di persone che apprezzano il progetto. Per esempio, le figurine del baseball sono preziose solo per alcuni collezionisti, che però credono veramente nel loro valore.
Le incursioni più riuscite di aziende tradizionali del Web3 sono quelle che creano comunità o si connettono con comunità preesistenti. Considerate la NBA: Top Shot è stato uno dei primi progetti NFT messi in campo da un brand tradizionale, e dava ai tifosi la possibilità di acquistare e vendere videoclip, denominati “moments” (per esempio, una schiacciata di LeBron James), che funzionano come figurine virtuali. Ha avuto successo perché creava un nuovo tipo di comunità per i fan della pallacanestro, molti dei quali collezionavano già figurine dei giocatori. Altri brand di primo piano, come Nike, Adidas e Under Armour, hanno aggiunto uno strato digitale alle loro comunità preesistenti di collezionisti. Tutte e tre le aziende offrono NFT che si possono usare nel mondo digitale – e consentono per esempio al proprietario di creare un avatar – o danno accesso a prodotti limited edition o a vendite speciali del mondo reale. Adidas ha venduto NFT per 23 milioni di dollari in meno di un giorno e ha creato istantaneamente un mercato secondario su OpenSea, proprio come potrebbe accadere dopo una vendita limitata di nuove scarpe da basket. Analogamente, la rivista Time ha lanciato un progetto NFT per costruire una comunità online intorno alla sua lunga e prestigiosa storia.
Bored Ape Yacht Club è il caso più brillante di popolarizzazione di un progetto NFT. Combinando pubblicità ed esclusività, BAYC dà accesso a party reali e a eventi online, oltre a conferire diritti di utilizzo dell’immagine della scimmia – a tutto beneficio del brand. L’NFT di una scimmia fa entrare il suo proprietario in un club esclusivo, sia figurativamente sia letteralmente.
Una lezione che possiamo trarre da questi sforzi è che le rampe di accesso contano, ma diventano meno importanti a fronte di un maggior coinvolgimento della comunità. Ottenere un crypto wallet non è difficile, ma è un passo aggiuntivo. Perciò Top Shot non lo richiede – gli utilizzatori possono semplicemente inserire i dati della carta di credito – il che l’ha aiutata ad acquisire utilizzatori privi di familiarità con gli NFT. The Bored Ape Yacht Club era un business di nicchia, ma quando è decollato ha fatto da catalizzatore per la creazione di wallet e per l’ulteriore sviluppo di OpenSea.
Alcune aziende hanno avuto esperienze più complesse con progetti NFT e caratteristiche crypto. Per esempio, quando Jason Citron, il CEO di Discord, un servizio di comunicazione in voce, video e testo, ha accennato all’idea di introdurre una caratteristica in grado di connettere l’app ai crypto wallet, gli utilizzatori si sono ammutinati, costringendolo a dichiarare che l’azienda «non aveva in corso piani» per lanciare quell’innovazione. Il brand di biancheria intima Me Undies e la sezione britannica del World Wildlife Fund hanno abbandonato velocemente i progetti NFT dopo la rivolta dei clienti e dei soci, infuriati per l’impatto ambientale. Anche i casi di successo hanno incontrato serie difficoltà. Nike sta combattendo una battaglia legale per far “distruggere” NFT non autorizzati, e OpenSea deve vedersela con un gran numero di imitatori. Poiché la blockchain è immutabile, questa sua caratteristica pone questioni giuridiche nuove e non è chiaro come faranno le aziende a gestire il problema. Inoltre, ultimamente, il mercato degli NFT si bloccato del tutto.
Le aziende che stanno valutando la possibilità di entrare in questo ambito dovrebbero ricordarsi che il Web3 è polarizzante e che non ci sono garanzie di sorta. Tra i numerosi aspetti controversi, il più importante è la contrapposizione tra coloro che credono in ciò che potrebbe essere il Web3 e i critici che ne denunciano i tanti limiti attuali.
Le accuse al Web3
Gli esordi di una tecnologia sono sempre ricchi di promesse. Le possibilità sono infinite, e l’attenzione degli osservatori si concentra su ciò che può fare – o che farà, secondo gli ottimisti. Sono abbastanza vecchio per ricordarmi di quando si diceva che il dialogo totalmente aperto consentito da Twitter e Facebook avrebbe diffuso la democrazia in tutto il mondo. Poiché l’aura di inevitabilità (e di profittabilità) del Web3 continua a fare nuovi proseliti, bisogna tener conto di ciò che potrebbe andare storto e prendere atto di ciò che va già storto.
La speculazione abbonda. Gli scettici affermano che, nonostante tutta la retorica sulla democratizzazione, i diritti di proprietà e la costruzione di una enorme ricchezza per tutti, il Web 3 non è altro che una gigantesca economia speculativa destinata a rendere ancora più ricchi alcuni ricchi di oggi. È facile capire come si giustifica questa argomentazione. Il primo 0,01% dei proprietari di Bitcoin possiede il 27% dell’offerta totale. Sono stati riferiti casi di wash trading, o vendita di asset a se stessi, e manipolazione del mercato sia nelle criptovalute sia negli NFT, meccanismi che fanno aumentare artificiosamente il valore e consentono ai proprietari di guadagnare monete digitali con operazioni fasulle. In un’intervista trasmessa sul podcast The Dig, i giornalisti Edward Ongweso Jr. e Jacob Silverman hanno descritto l’intero sistema come un elaborato spostamento di ricchezza verso l’alto. Su The Atlantic, l’investitore Rex Woodbury ha definito il Web3 “la finanziarizzazione di tutto” (e non in senso buono). A un livello più analitico, Molly White, un’ingegnera informatica, ha creato il sito Web3 Is Going Just Great, dove denuncia il malaffare che imperversa nel mondo del Web3, mettendo in luce le insidie di questo Far West contemporaneo.
La natura imprevedibile e speculativa dei mercati potrebbe essere una caratteristica permanente, non un baco del sistema. Secondo il tecnologo David Rosenthal, la speculazione sulle criptovalute è il motore che alimenta il Web3 – che non potrebbe funzionare in sua assenza. «Una blockchain permissionless ha bisogno di una criptovaluta per funzionare e questa criptovaluta ha bisogno della speculazione per funzionare», ha detto in un discorso tenuto a Stanford all’inizio del 2022. In buona sostanza, egli descrive uno schema a piramide: le blockchain devono dare qualcosa alle persone in cambio del loro concorso volontario all’elaborazione informatica e le criptovalute sono la ricompensa – ma il sistema funziona solo se altri sono disposti ad acquistarle nella convinzione che varranno di più in futuro. Stephen Diehl, tecnologo e nemico giurato del Web, ha liquidato elegantemente la blockchain come «un meccanismo statico la cui sola applicazione è la creazione di schemi di investimento in criptovalute che resistono alla censura, un’invenzione le cui esternalità negative e la cui nocività potenziale superano di gran lunga tutti i possibili utilizzi».
È una tecnologia poco pratica (e costosa). Sono in molti a domandarsi se il Web3 – o più in generale la blockchain – può essere veramente la tecnologia che definirà la prossima era di Internet. «Anche se condividete la filosofia e logica economica che ci stanno dietro, le criptovalute sono un disastro annunciato in termini di architettura software», dice Grady Booch, chief scientist for software engineering di IBM Research. La tecnologia comporta sempre dei trade-off, ha spiegato Booch in una conversazione su Twitter Spaces, e il costo di un sistema “trustless” è la sua intrinseca inefficienza, che gli consente di processare solo un numero limitato di transazioni al minuto – pochissimi dati rispetto a quelli che è in grado di processare un sistema centralizzato come, per dire, Amazon Web Services. La decentralizzazione rende la tecnologia più complicata e ulteriormente inavvicinabile, anziché più semplice e più accessibile, per gli utilizzatori inesperti.
Anche se il problema si può risolvere aggiungendo nuovi strati in grado di accelerare i processi, in questo modo si rende più centralizzato l’intero sistema, vanificandone lo scopo. Moxie Marlinspike, fondatore dell’app di messaggistica criptata Signal, la mette in questi termini: «Nel momento in cui un ecosistema distribuito si centralizza per comodità intorno a una piattaforma, unisce il peggio dei due mondi: il controllo è centralizzato, ma il sistema è ancora abbastanza distribuito da restare bloccato nel tempo».
In questo momento, l’inefficienza della blockchain ha un costo tutt’altro che trascurabile. I costi di transazione su Bitcoin ed Ethereum (che li chiama gas fee), possono andare da una decina ad alcune centinaia di dollari. Archiviare un megabyte di dati sul registro distribuito di una blockchain può costare migliaia, o addirittura decine di migliaia, di dollari – sì, avete letto giusto. Ecco perché probabilmente in realtà l’NFT che avete acquistato non sta su una blockchain. Il codice che designa la vostra proprietà include un indirizzo, che è quello del luogo virtuale in cui si trova l’immagine. Ciò può causare, e ha causato effettivamente, dei problemi, tra cui la sparizione del vostro costoso acquisto se il server su cui si trova effettivamente smette di funzionare.
Consente molestie e abusi. La possibilità di conseguenze disastrose indesiderate è molto concreta. “Mentre i sostenitori della blockchain parlano di un “futuro del web” basato sui registri pubblici, sull’anonimato e sull’immutabilità”, scrive Molly White, “coloro che sono stati molestati online inorridiscono, perché ovvi strumenti di molestie e abusi vengono trascurati, se non presentati come caratteristiche positive”. Anche se i crypto wallet assicurano teoricamente l’anonimato, il fatto che le transazioni siano pubbliche implica che si possono far risalire ai singoli individui. (L’FBI è molto bravo in questo, il che spiega perché le operazioni criptate non si prestano bene all’attività criminale). “Immaginate cosa accadrebbe se, quando pagate con Venmo metà del conto del ristorante all’amico che avete conosciuto su Tinder, gli altri potessero vedere tutte le altre transazioni che avete fatto in precedenza”, con altri corteggiatori, con lo psicoterapeuta e con il droghiere sotto casa. Nelle mani di un ex partner manesco o di uno stalker, quelle informazioni potrebbero mettere in pericolo la vostra vita.
L’immutabilità della blockchain implica inoltre che i dati non si possono distruggere. Non c’è modo di cancellare alcunché, da un post deplorevole al revenge porn. L’immutabilità potrebbe anche creare grossi problemi per il Web3 in alcune parti del mondo, come l’Europa, dove la General Data Protection Regulation (GDPR) assicura il diritto alla cancellazione dei dati personali.
Attualmente è molto dannoso per l’ambiente. L’impatto ambientale del Web3 è molto pesante ed estremamente dannoso. Si può dividere in due categorie: uso dell’energia e rifiuti tecnologici, entrambi prodotti dell’attività di mining. Mettere in moto un network che dipende da supercomputer in competizione tra loro per la soluzione di equazioni complesse, tutte le volte che volete salvare dei dati su una blockchain, assorbe un’enorme quantità di energia. Genera anche rifiuti elettronici: secondo Rosenthal, il bitcoin produce «mediamente i rifiuti elettronici di un intero MacBook Air per ogni transazione “economicamente significativa”», perché i miner usano grosse quantità di hardware. La ricerca su cui fonda questa affermazione, condotta da Alex de Vries e Christin Stoll, dimostra che i rifiuti elettronici creati annualmente da Bitcoin equivalgono a quelli prodotti da un Paese delle dimensioni dell’Olanda.
È difficile prevedere se e come questi problemi saranno risolti, anche perché non è ancora chiaro se il Web3 prenderà veramente piede. La blockchain è una tecnologia in cerca di un uso reale, dice l’esperto di tecnologia Evgeny Morozov. «Il modello di business di quasi tutte le iniziative commerciali che si fondano sul Web3 è estremamente autoreferenziale e si nutre della fede della gente nel passaggio inevitabile dal Web 2.0 al Web3». Tim O’Reilly, che ha coniato il termine ” Web 2.0″ per descrivere il predominio delle piattaforme nei primi anni Duemila, afferma che stiamo assistendo a un boom di investimenti che ricorda da vicino l’era delle dot.com prima dell’implosione. «Web 2.0 non era semplicemente il nome di una versione; indicava la rinascita del web dopo il tracollo delle dot.com», dice. «Non penso che potremmo chiamare il Web3 con questo nome se non dopo la fine delle criptovalute, perché solo allora riusciremo a capire cos’è rimasto in piedi».
Se è vero, allora l’innovazione arriverà imponendo un costo significativo. Come osserva Hilary Allen, una docente di diritto della American University, oggi il sistema, «rispecchia e amplifica le fragilità delle innovazioni bancarie che hanno prodotto la crisi finanziaria del 2008». Se esplodesse, la bolla del Web3, potrebbe lasciare molta gente nelle peste.
Siamo tornati agli inizi
Ma dove sta andando esattamente il Web3? Il cofondatore di Ethereum, Vitalik Buterin, ha espresso delle preoccupazioni sulla direzione che sta prendendo la sua creatura, ma continua a essere ottimista. Rispondendo a Marlinspike sulla pagina Reddit di Ethereum, ha riconosciuto che il fondatore di Signal presentava “una critica corretta alla situazione attuale dell’ecosistema”, ma ribadiva che il web decentralizzato stia guadagnando terreno, e piuttosto rapidamente. Tra poco, il lavoro attualmente in corso – la creazione di librerie di codice – faciliterà per altri sviluppatori la collaborazione su progetti Web3. «Io penso che il mondo della blockchain decentralizzata e correttamente autorizzata sia ormai prossimo e molto più vicino di quanto non si pensi comunemente».
Tanto per cominciare, la proof of work – il sistema strutturalmente inefficiente su cui si reggono Bitcoin ed Ethereum, sta andando fuori moda. Anziché dal mining, che impiega enormi quantità di energia, la validazione viene sempre più frequentemente da utilizzatori-soci chiamati ad approvare le transazioni. Ethereum stima che il passaggio alla proof of stake ridurrà l’impiego di energia del 99,95%, rendendo nel contempo la piattaforma più veloce e più efficiente. Solana, una nuova blockchain che usa la proof of stake e la “proof of history”, un meccanismo che si basa sulla marcatura temporale, è in grado di processare 65.000 transazioni al secondo (contro le 15 e le 7 che processano oggi, rispettivamente, Ethereum e Bitcoin) e impiega più o meno la stessa energia di due ricerche su Google – un consumo che compensa con l’acquisto di crediti di carbonio.
Alcune aziende stanno adottando un approccio ibrido alla blockchain, che offre gli stessi benefici senza comportarne i limiti. «Ci sono tante nuove architetture realmente interessanti, che mettono sulla blockchain certe cose ma non altre», mi ha detto Buterin. Un social network, per esempio, potrebbe registrare sulla blockchain i vostri follower e le persone che seguite, ma non i vostri post, dandovi così la possibilità di cancellarli.
I modelli ibridi possono anche aiutare ad affrontare i vincoli della GDPR e di altre normative. «Per rispettare il diritto alla cancellazione», spiegano Cindy Compert, Maurizio Luinetti e Bertrand Portier in libro bianco pubblicato da IBM, «i dati personali andrebbero isolati dalla blockchain in un deposito di data store esterno alla catena, lasciando esposti sulla blockchain solo i riferimenti crittografici”. In questo modo, i dati personali si possono cancellare nel rispetto della GDPR senza danneggiare la catena.
Bene o male, la regolamentazione arriverà – lentamente – e definirà il prossimo capitolo del Web3. La Cina ha messo al bando le criptovalute, come hanno fatto anche Algeria, Bangladesh, Egitto, Iraq, Marocco, Oman, Qatar e Tunisia. L’Europa sta prendendo in considerazione norme ambientali che dovrebbero limitare o vietare del tutto le blockchain incentrate sulla proof of work. Negli Stati Uniti, l’amministrazione Biden ha emesso nel mese di marzo un ordine esecutivo che impone al governo federale di predisporre la regolamentazione delle criptovalute.
Con tutti questi aspetti ancora in discussione, il Web3 rimane una scommessa ad alto rischio e alti guadagni. Certe aziende e certi settori hanno più interesse di altri a tentare la fortuna, specie quelli che sono stati tagliati fuori in ere precedenti del Web. Non è un caso che una media company come Time sia interessata alle opportunità offerte dal Web3 dopo la frantumazione del suo modello di business da parte del Web2. Altre organizzazioni – come Nike e la NBA, che hanno già sperimentato vendite contingentate e fasi di commoditizzazione – potrebbero scoprire che i loro modelli di business si integrano agevolmente nel nuovo ambiente virtuale. Altre imprese non avranno di fronte una scelta così facile.
Gli ambiziosi proclami che circondano il Web3 – che conquisterà Internet, ribalterà il sistema finanziario, ridistribuirà la ricchezza e renderà nuovamente democratica la Rete – andrebbero presi con le pinze. Abbiamo già sentito dire tutte queste cose e abbiamo già visto casi di euforia da Web3 finire in una bolla di sapone. Ma ciò non significa che si dovrebbe darlo già per finito. Forse esploderà, forse fallirà, ma in qualche modo resterà comunque con noi. La versione che si affermerà – e il modo in cui reagirà la vostra azienda – potrebbero determinare il futuro dell’economia digitale e della vita che vivremo online nella prossima era di Internet. Per ora, quel futuro è ancora a portata di mano. Nulla, dopotutto, è inevitabile.
Thomas Stackpole è senior editor della Harvard Business Review.