Il dilemma del coltan: quando la tecnologia schiaccia i diritti

2-04-2021 | News

Senza coltan non ci sarebbero smartphone, pc e tutti quei device che sono parte integrante della nostra quotidianità. La Repubblica Democratica del Congo controlla l’80% della produzione del coltan, una lega di due minerali preziosi (columbite e tantalite) che ritroviamo in praticamente tutta la tecnologia prodotta almeno negli ultimi 10 anni. Nel gruppo delle cosiddette terre rare, la columbo-tantalite (parola di cui coltan è la contrazione) ricopre un ruolo centrale, soprattutto nel paese africano dove, a seguito del raddoppio delle royaltyes richieste alle multinazionali minerarie per ripagare l’altissimo debito pubblico, il mercato illegale ha preso il sopravvento. Con tutte le ripercussioni in termini di sfruttamento dei lavoratori (soprattutto minori): come ha spiegato di recente l’Agi in uno speciale dedicato, il prezzo di questa miscela è passata da 2 dollari al chilogrammo nel 1998 a 600 dollari al chilogrammo nel 2004, mentre oggi varia tra i 150 e i 200 dollari.

Coltan: sfruttamento, rischi per la salute e conflitti

Medici Senza Frontiere ha denunciato le condizioni disumane in cui sono costretti a lavorare uomini, donne e bambini impiegati nelle miniere in cui si trova la preziosa materia prima: «Per estrarlo ci vogliono profondi tunnel e numerosi schiavi che per la disperazione, si ritrovano a lavorare in condizioni di grande sfruttamento con una paga di pochi dollari al giorno, scavando con vanghe e, per le donne e i bambini, lavando a mano le pietre che trasporteranno per chilometri al mediatore più vicino». Oltre alla fatica fisica, le ripercussioni di questo mercato illegale si notano anche nella salute di chi maneggia il coltan: aumento di rischi di cancro, malattie all’apparato linfatico e difetti genetici nella prole sono le patologie più frequenti.

La Repubblica Democratica del Congo vive dunque la cosiddetta maledizione delle risorse. Pur essendo una delle zone del pianeta con più ricchezze nel sottosuolo – oro, diamanti, rame, cobalto e coltan – il paese non ha mai saputo tradurre questo patrimonio naturale in un benessere e sviluppo diffuso ed equo. Da oltre 20 anni, in questo angolo dell’Africa, in particolare nella regione del Kivu, è in corso un conflitto basato sulla lotta per il controllo delle risorse, e sempre in questa regione si concentra una parte rilevante dei 5,5 milioni di sfollati interni che si trovano nel paese. E proprio qui hanno trovato la morte il 22 febbraio scorso l’ambasciatore italiano nella Repubblica Democratica del Congo Luca Attanasio, il carabiniere Vittorio Iacovacci e l’autista Mustapha Milambo.

Cina: la partita sulle terre rare

A gestire gli affari di questa industria su cui si regge il comparto tecnologico delle multinazionali che producono smartphone, computer e molto altro ci sono anche i paesi come la Cina, un attore sempre più centrale nella partita delle terre rare. Come si legge in questo approfondimento dell’ISPI, già nel 1992 il leader cinese Deng Xiaoping aveva affermato nel corso di un viaggio che «il Medio Oriente ha il petrolio, la Cina le terre rare», indicando la via che il gigante asiatico avrebbe seguito nei decenni successivi, alla ricerca di materiali preziosi come il cobalto, fondamentale nella filiera delle batterie che servono per attuare la transizione verso la mobilità elettrica.

La tracciabilità tecnologica

Non sono bastate le critiche da parte dell’ONU che, nel 2002, aveva già accusato l’intera industria estrattiva di essere responsabile dello sfruttamento disumano delle persone nella Repubblica democratica del Congo. Il coltan, nello specifico, è tra le terre rare più importanti perché ha consentito di miniaturizzare i dispositivi e ridurre il consumo di energia degli smartphone. D’altra parte la sua tracciabilità non è mai stata affrontata in maniera seria dall’industria, al punto che lo sfruttamento e le violazioni dei diritti delle persone si perdono nei diversi passaggi che portano il coltan dall’estrazione fino alle gradi aziende. In passato sono state fatte campagne di sensibilizzazione – in Belgio era partita l’iniziativa “niente sangue nel mio Gsm” – e aziende come l’olandese FairPhone hanno fatto una scelta chiara in termini di produzione etica. Tutto questo, tuttavia, si scontra con i numeri esorbitanti di un mercato tecnologico che, tanto per citare un dato, soltanto nel 2020 ha visto 1,37 miliardi di smartphone venduti nel mondo.

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