Smart working, apocalittici e integrati. Verso una nuova cultura del lavoro

9-06-2020 | News

smart working

L’impatto dell’emergenza Covid-19 è stato travolgente su molti aspetti della socialità, dalle modalità di interazione tra le persone, agli spostamenti, al modo di comunicare. Ma lo è stato in particolare sull’organizzazione del lavoro. Cambiamenti che fino a poche settimane prima dello scoppio della pandemia avrebbero richiesto anni per giungere a maturazione hanno subito un’accelerazione improvvisa.

Prima dell’emergenza sanitaria lo smart working riguardava, secondo le stime dell’Osservatorio del Politecnico di Milano, 570 milalavoratori, il 20% in più dell’anno precedente. Cifre che crescevano costantemente, ma a tassi poco significativi. Erano soprattutto le grandi imprese ad applicarlo (58%), mentre restava bassa la percentuale di adozione nelle Pmi (12%) e nelle pubbliche amministrazioni (16%). Anche per gli smart worker l’utilizzo di lavoro da remoto restava minoritario, limitato in media a un giorno alla settimana e prevalentemente riservato ad attività di lavoro individuale.

Lavoro agile o «forzato»?

Il lockdown ha di fatto stravolto questo panorama: nel breve volgere di due mesi il numero di italiani che hanno fatto ricorso al lavoro a distanza è schizzato fino a 8 milioni. Ottimizzazione dei tempi, maggiore flessibilità nel lavoro, migliore bilanciamento casa-ufficio. Sono molti i lavoratori che trovano più vantaggi che svantaggi in questa nuova condizione: secondo un’indagine condotta dalla Cgil in collaborazione con la Fondazione Di Vittorio, il 60% delle persone vorrebbe proseguire l’esperienza di smart working una volta che l’emergenza sarà alle spalle, mentre solo il 20% non vorrebbe continuare a lavorare in questa modalità.

Allo stesso tempo è opinione diffusa che l’attuale adozione, in uno stato emergenziale, del lavoro da remoto non sia altro che un esperimento forzato. Molte persone non hanno potuto esercitare alcuna scelta perché sono state di fatto vincolate a lavorare da casa, spesso senza quelle condizioni di autonomia necessarie ad innescare un cambiamento più virtuoso. Non mancano gli aspetti negativi: senso di isolamento, difficoltà a disconnettersi e a mantenere un equilibrio tra vita privata e professionale. Per questo da più parti sono giunti appelli ad una regolamentazione del lavoro agile. Il ministro del lavoro e delle politiche sociali Nunzia Catalfo in un’intervista pubblicata su Il Sole 24 Ore ha affermato che «in futuro lo smart working andrà incentivato e soprattutto adattato al fine di bilanciare la richiesta di flessibilità oraria e organizzativa delle imprese con le legittime esigenze di conciliazione vita-lavoro dei dipendenti».

Un cambiamento culturale

La verità è che, affinché possa dispiegare tutte le sue potenzialità, il cambiamento prodotto dallo smart working dovrà essere più profondo di un semplice switch a livello organizzativo: si dovrà passare da un management orientato al presenzialismo e al controllo ad uno orientato alla fiducia, alla collaborazione, alla flessibilità e alla delega. Come osserva il professor Mariano Corso, responsabile scientifico degli Osservatori Smart Working e Cloud Transformation del PoliMi, le aziende dovranno agire su diverse leve: policy organizzative, certo, ma anche tecnologie digitali, layout fisico degli spazi di lavoro e stile della leadership più legata alla cultura dei lavoratori e al loro modo di vivere il lavoro.

Appare comunque difficile pensare di tornare indietro. La nuova prospettiva è quella di un panorama sempre più ibrido: la ministra della Pubblica Amministrazione Fabiana Dadone, ad esempio, ha annunciato di voler mantenere tra il 30 e il 40 per cento dei dipendenti pubblici in smart working anche nel post-Covid. «Abbandoniamo il feticcio del cartellino, le polemiche sui furbetti, e iniziamo a far lavorare per obiettivi, con scadenze giornaliere, settimanali, mensili» ha spiegato parlando del futuro della PA, che la ministra immagina «più flessibile, dinamica, digitalizzata».

Twitter e Microsoft su fronti opposti

Nel mondo non mancano paesi che hanno colto la tragica opportunità della pandemia per trarne spunti positivi e premere sull’acceleratore del cambiamento. In Nuova Zelanda la premier Jacinda Ardern ha lanciato la proposta di una settimana lavorativa di quattro giorni e di altre opzioni di lavoro flessibile, non solo per aiutare i lavoratori a bilanciare lavoro e vita personale, ma anche come incentivo allo sviluppo del turismo interno.

Secondo il fondatore di Facebook Mark Zuckerberg almeno la metà dei dipendenti dell’azienda di Menlo Park potrebbe lavorare da remoto entro il 2030. Per questo a partire da luglio ha annunciato di voler selezionare attivamente persone per il lavoro da remoto e adottare misure per iniziare ad aprire il lavoro a distanza anche agli attuali dipendenti. È andato molto oltre CEO di Twitter, Jack Dorsey, che ha comunicato ai dipendenti della società che potranno decidere liberamente se continuare a lavorare da casa anche dopo il Covid-19.

Chi invece si è espresso contro corrente è stato Satya Nadella, CEO di Microsoft. Secondo Nadella, se si dovesse passare a lavorare solo da casa sarebbe un grosso problema: «Che ne sarebbe della salute mentale delle persone?» si è chiesto Nadella. «Che ne sarebbe delle connessioni e della costruzione di relazioni di gruppo? In questa fase in cui stiamo tutti lavorando da remoto, sento che forse stiamo bruciando parte del capitale sociale che abbiamo costruito».

Perché le fosche revisioni di Nadella non si realizzino è forse necessario che le nuove modalità organizzative del lavoro siano sostenibili, anche da un punto di vista sociale. Si tratta di un’occasione di sperimentazione da non lasciarsi sfuggire per resettare le nostre abitudini e consolidare nuovi modi di lavorare che potranno risultare preziosi, se pianificati e regolamentati, nel prossimo futuro.

Andrea Fasulo

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