Diciamolo, quello che nei mesi di lockdown è stato definito smart working ed è stato spesso presentato come una gran novità, nei fatti corrisponde al buon vecchio telelavoro, o lavoro a distanza. Assai spesso di intelligente non aveva e non ha granché, poiché nella maggioranza dei casi ha corrisposto a un semplice trasferimento di attività dal luogo di lavoro al domicilio personale, senza che l’organizzazione potesse fare molto di più che non dare le risorse minime per lavorare da casa. Essenzialmente, il pc e lo smartphone, mentre di solito eventuali ulteriori elementi, quali la banda sufficientemente larga o la stampante, sono dipesi dalla disponibilità del lavoratore di metterli a disposizione o di dotarsene secondo l’esigenza.
Dunque, non di lavoro intelligente si è trattato, in quanto non precedentemente pensato e organizzato, bensì di lavoro a distanza che, a quanto sembra, ha interessato (e in parte interessa ancora) qualcosa come 8 milioni di lavoratori, contro i 500mila stimati prima della pandemia. La cosa sorprendente è che tutto sommato sembra aver funzionato, senza particolari cadute di produttività, senza interruzioni catastrofiche, senza eccessivi problemi esistenziali. I lavoratori, cioè noi tutti, si sono mostrati passabilmente intelligenti anche quando il lavoro non lo è stato. Smart worker, dunque, e non smart work.
Fin qui tutto bene, il picco dell’emergenza sembra superato, almeno in Italia, e molti sono tornati al lavoro, di norma con una certa soddisfazione, perché lavorare a casa può sembrare una grande attrattiva per qualcuno, ma per la maggioranza si rivela un peso, con gradazioni diverse di gravità, quando non un vero e proprio incubo. Tornare sul luogo abituale di lavoro di questi tempi, però, non è tutto, perché le imprese stanno facendo i conti con la recessione, con il calo della domanda e con la necessità di tenere a galla i conti del 2020. E si sa già che non saranno conti leggeri, tranne che per le aziende di quei pochi settori che nel periodo del Covid hanno soddisfatto una domanda incomprimibile o in ascesa, come il farmaceutico (non tutto), il sanitario e l’alimentare.
E dunque, fare i conti si deve e, inevitabilmente, uno degli obiettivi primari quando calano, o crollano, i ricavi è quello di ridurre responsabilmente i costi. Il che, nel breve periodo, non può non tradursi in un calo occupazionale, che potrà essere solo temporaneo o, in alcuni casi, anche definitivo, perché qualche azienda non resisterà alla crisi, altre ricorreranno a innovazioni tecnologiche e automazioni salva-lavoro, altre chiuderanno le attività meno remunerative. Ed è proprio questa una delle preoccupazioni maggiori dei nostri giorni: la possibilità che il nostro posto di lavoro venga cancellato, prima o poi, temporaneamente o permanentemente. Da qui l’ansia, che è uno dei disagi più diffusi di questo periodo tormentato dalla pandemia.
La questione dell’ansia, che qualche volta sfocia anche in vero e proprio disagio mentale, è rilevante ed è certamente segno dei tempi che nelle organizzazioni prenda sempre più spazio. L’ansia è generata da paure legate a fatti reali o solo immaginari e compromette sia la salute mentale delle persone che ne sono soggette sia la loro performance lavorativa. Dunque, è bene in primo luogo che i leader delle imprese, ma anche i dipendenti ed eventualmente anche le organizzazioni sindacali, ne siano ben consapevoli e che, in secondo luogo, si affronti il problema con gli strumenti appropriati.
Per riuscire a superare la crisi e a ripartire non appena le circostanze lo permetteranno, le aziende dovranno dunque alleggerirsi, diventare più innovative, snelle e flessibili. Il termine più usato, e talvolta abusato, è che dovranno divenire agili e flessibili. Molte lo stanno facendo, in questi tempi di emergenza, altre dovranno imparare a farlo. Ma per riuscirci avranno bisogno di lavoratori capaci di affrontare le inquietudini oggi così diffuse, e le loro ansie. Non è più un tema individuale ma ormai collettivo, ci tocca tutti, e dovremmo collaborare per risolverlo al meglio.
Enrico Sassoon
Direttore responsabile di Harvard Business Review Italia
Sommario
Inserto n. 02 – I NUOVI EQUILIBRI DELLE IMPRESE
Dal telelavoro allo smart working di Bruno Lamborghini
Il lavoro a distanza al tempo del coronavirus di Heidi K. Gardner e Ivan Matviak
Nomadi digitali di Andrea Granelli
Telelavoro – Ma come mi vesto? di Noah Zandan e Hallie Lynch
5 buoni consigli per gestire l’ansia da rientro di Sarah Clayton e Anthea Hoyle
Più agili per competere di Redazione di Harvard Business Review Italia