Il negazionismo è finito, ma il dilazionismo fa ancora molti danni

27-09-2022 | News

Ormai quasi nessuno nega la crisi climatica e le sue cause antropiche, ma la politica tende a rimandare le scelte essenziali. Ma, la transizione ecologica dovrà essere al centro dell’operato di qualsiasi governo

di Donato Speroni

Il “ministro degli esteri” dell’Unione europea, Josep Borrell, ha di recente ricordato (20 settembre 2022) la frase pronunciata da António Guterres o in occasione dell’Assemblea generale dell’Onu con cui ha descritto la situazione attuale come una “tempesta perfetta”. Il termine “tempesta perfetta” per descrivere le minacce alla nostra civiltà, derivanti dalla somma dei fattori demografici, ambientali, economici e sociali, fu usato per la prima volta dal capo dei consulenti scientifici del governo inglese John Beddington in un suo rapporto del 2009, ripreso poi dal Population institute di Washington, diretto all’epoca da Robert Walker, che ne fece un opuscolo distribuito nelle scuole per sensibilizzare gli studenti americani alle sfide del futuro. Beddington collocava la crisi attorno al 2030; con il collega Gianluca Comin, partendo dal suo rapporto, pubblicammo per Rizzoli il libro “2030 La tempesta perfetta – Come sopravvivere alla Grande Crisi”.

Che cosa è cambiato in questi dieci anni? La “tempesta perfetta” ci ha colto molto prima di quel che potevamo aspettarci: ci siamo già in mezzo, come ci dice Guterres. Guerre, malattie, eventi legati alla crisi climatica riempiono i giornali come mai prima d’ora, ma ovviamente è anche aumentata la sensibilità dell’opinione pubblica e il tentativo di organizzare risposte adeguate. La sottoscrizione dell’Agenda 2030 dell’Onu nel 2015 e, a livello nazionale, la nascita dell’ASviS nel 2016, ne sono testimonianza.

Nei dibattiti che seguirono la pubblicazione del nostro libro fummo accolti con interesse e cortesia, ma anche con una punta di scetticismo. All’epoca il negazionismo era ancora molto forte: c’era chi negava il cambiamento climatico e le sue cause antropiche. Più in generale, si minimizzavano le minacce del futuro, nella convinzione che il progresso scientifico e tecnologico avrebbe risolto tutte le sfide.

Oggi la situazione è radicalmente diversa. Nel dibattito scientifico nessuno ormai nega il riscaldamento climatico, anche se i negazionisti sono ancora presenti sui social, dove peraltro prosperano anche terrapiattisti e fautori delle scie chimiche. Il discorso sulla crisi si è molto spostato dalla mitigazione, importantissima ma con effetti di lungo termine, alle urgenze dell’adattamento, per far fronte a eventi meteorologici estremi, siccità e alluvioni, innalzamento dei mari, fenomeni già in corso. Anche le conseguenze sociali dei danni che l’uomo sta apportando al Pianeta sono più evidenti, mentre la lotta alla povertà estrema e alla insicurezza alimentare segna il passo. Conosciamo anche piuttosto bene le soluzioni che dobbiamo mettere in atto a tutti i livelli. 

E allora qual è il problema? È la tendenza a rinviare perché la politica privilegia il breve termine. Il futuro? Ci penserò domani… La campagna elettorale in Italia si è combattuta sulle bollette, sull’invio di armi in Ucraina, sul reddito di cittadinanza, sul tasso di postfascismo della destra. Temi certamente importanti ma non abbastanza attraenti per le nuove generazioni, sulle quali si tende peraltro a scaricare ulteriore debito pubblico e il peso insostenibile del nostro modello di sviluppo. Anche quando la tragedia nelle Marche ha costretto i politici a parlare di clima, (quasi) tutti sono rimasti su formulazioni generiche. Del resto, uno studio di Greenpeace e dell’Osservatorio di Pavia svela i “numeri ambientali” della campagna elettorale: poco più del 10% delle dichiarazioni dei politici nei Tg e su Facebook è indirizzato ai temi ambientali. 

L’intera vicenda dei comuni devastati dalle piene dei torrenti in provincia di Ancona è un esempio di dilazionismo, di soldi stanziati in ritardo e poi neppure spesi, come spesso accade per le opere pubbliche affidate agli enti locali. Un’inefficienza che preoccupa vista la mole di investimenti previsti dal Piano nazionale di ripresa e resilienza, affidati a Regioni, Province e Comuni, che saranno finanziati solo se verranno completamente realizzati entro il 2026.

Alle pastoie e alle inefficienze burocratiche si sommano le resistenze politiche. Pensiamo alla realizzazione del Tap, il gasdotto che arriva in Salento, realizzato nonostante le tante battaglie contrarie. Un’infrastruttura di cui oggi l’Italia ha fortemente bisogno. O ai futuri nuovi rigassificatori, che ci dovrebbero permettere di sganciarci dalle forniture russe. Sull’ipotesi di ormeggiare una di queste navi a Piombino si è aperta una vertenza che, nonostante le compensazioni offerte alla città, non sappiamo come e quando finirà.

Da parte nostra chiediamo che il ruolo di transizione del gas naturale sia il più possibile contenuto (ma per qualche anno non potremo farne a meno), passando al più presto a una rete elettrica alimentata dalle energie rinnovabili. Ma anche in questo campo si verificano gravissime resistenze, persino su impianti praticamente già pronti, con decine di situazioni nelle quali prevale l’effetto nimby, not in my backyard, non nel mio cortile. Per non parlare delle colonnine per le auto elettriche, affidate a mille regolamenti diversi dei Comuni, e del Pnacc, il Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici, che è rimasto in bozza dal 2017.

C’è molto da fare, insomma, per la transizione ecologica e il tema sarà al centro del prossimo Festival dello Sviluppo Sostenibile. Ma c’è ancora chi nega l’evidenza. Per esempio, su un articolo di Paolo Del Debbio, per la verità molto più misurato, La Verità (scusate il bisticcio) titola: “La scusa del clima, macché transizione ecologica, più cura del territorio, meno Greta”, come se la lotta alla crisi climatica e la indispensabile manutenzione di montagne e bacini idrici fossero in antitesi. C’è ancora chi usa il termine “gretini” offendendo le migliaia di giovani che anche oggi scendono in piazza con i Fridays for Future. Eppure, il Governo che verrà non potrà nascondere questi problemi sotto il tappeto. Osserva Michele Serra nella sua “Amaca” su Repubblica:

«L’ambientalismo presto diventerà sinonimo di politica: non esisterà politica senza ambientalismo. (…) C’è più cognizione del futuro nei “gretini” che negli intelligentoni che affidano alle processioni il compito di regolare le stagioni».

Purtroppo, il dilazionismo imperversa anche nelle sedi internazionali, come ha rilevato Guterres nei suoi drammatici appelli in occasione dell’Assemblea al Palazzo di vetro. Il segretario generale dell’Onu ha anche avanzato proposte concrete: la riforma del Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite, per rivedere il diritto di veto riconosciuto ai Paesi che quasi settant’anni fa vinsero la Seconda guerra mondiale, e una tassazione generalizzata sulle imprese che producono carburanti fossili. Questa imposta si scaricherebbe poi sui prezzi dei beni prodotti con i fossili, stimolando la conversione alle rinnovabili. Sappiamo però che non se ne farà niente, almeno per molti anni ancora. Di riforma del Consiglio di sicurezza si parla da tempo, ma non si vede con quale percorso condiviso si possano emendare i meccanismi dell’Onu. La tassa sui produttori fossili può funzionare solo con un accordo mondiale e certo non è realizzabile con questi chiari di luna.

Anche se la politica è così lenta, si può fare comunque molto. Alla vigilia dell’Assemblea generale dell’Onu, nel corso di un “SDG moment”, la Fondazione Bill e Melinda Gates ha presentato il suo rapporto “Goalkeepers 2022, the future of progress”, che ha fatto il punto sugli Obiettivi dell’Agenda 2030, confermando il forte ritardo, ma ha anche presentato una serie di proposte concrete, dai finanziamenti alle donne con moneta digitale all’uso di sementi in grado di garantire maggiori rese anche su terreni aridi. Ma anche qui bisogna affrontare resistenze e diffidenze che rendono tutto molto difficile.

Da ASviS.it, 23 Settembre 2022

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