Non demonizziamo le nuove tecnologie, ma insegniamo a usarle criticamente

22-08-2024 | News

Il sociologo Gosetti: anche lo smart working può portare isolamento

Di Marta Ottaviani

Un atteggiamento pragmatico per valutare l’impatto delle nuove tecnologie, senza esaltarle ma nemmeno demonizzarle a priori. E soprattutto la necessità di imparare a conoscerle per tutelare i più fragili. Giorgio Gosetti, sociologo del lavoro dell’Università di Verona, ha spiegato perché educare criticamente alle nuove tecnologie sia il metodo migliore per non venirne sopraffatti. Perché anche in un mondo sempre più virtuale e interconnesso è possibile promuovere un senso di comunità.

Prof. Gosetti, la digitalizzazione sta influenzando le relazioni interpersonali e la comunicazione faccia a faccia? In che modo?

A monte della nostra conversazione, dal mio punto di vista, penso sia doveroso fare una breve premessa. Fra la categoria degli apocalittici, che vedono la tecnologia come necessariamente un evento negativo e che provocherà a calo dell’occupazione, un impoverimento del lavoro e problematiche sociali, e gli integrati, ovvero coloro che vedono nella tecnologia una risorsa per cambiare la società, per generare una palingenesi sociale, di fatto un cambiamento in positivo, mi piacerebbe collocarmi fra i “pragmatici critici”.

In che cosa consiste questo approccio?
Consiste nell’essere attenti alle implicazioni delle nuove tecnologie in positivo e in negativo. Di fatto noi abbiamo ancora molti margini di incertezza relativamente alle nuove tecnologie. Non sappiamo ancora bene quali sono le componenti, le loro specificità, le potenziali linee di evoluzione e le conseguenze. Quindi si apre uno scenario relativamente al quale dobbiamo essere attenti, avere un atteggiamento critico, ma anche una tensione a cercare di utilizzare strategicamente le potenzialità delle nuove tecnologie. Il Covid per un certo verso ci ha messo alla prova, obbligandoci a sperimentare tecnologie e modalità relazionali nuove. Almeno per molti di noi. Ha favorito un distanziamento fisico, ma non direi necessariamente distanziamento sociale. Ha sicuramente influenzato le modalità di relazione, facendo interrogate fortemente tutti quelli come me che sono sati abituati alle interazioni faccia a faccia e che non intendono decisamente abbandonarle. Ma le tecnologie digitali si sono inserite orai nei sistemi relazionali, e fanno parte della dimensione sociale delle relazioni. In sintesi, non demonizziamo ne esaltiamo le tecnologie che attraversano ormai le nostre relazioni, ma guardiamoci criticamente.

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Come possiamo promuovere un senso di comunità in un mondo sempre più virtuale e interconnesso?
 
Domanda difficile. Decisamente. Alla società, differenziata, formalizzata, frammentata, i sociologi hanno spesso contrapposto la comunità. Quel mondo vitale, denso di relazioni faccia a faccia, di senso profondo dello stare insieme, di condivisione valoriale. Che dire delle comunità virtuali? Sono comunità vere e proprie? Dovremmo innanzitutto capire quando sono “sensate”, vale a dire generatici e custodi di senso, di condivisioni valoriali ed esperienziali che accomunano le persone. Alcune comunità sono nate proprio con le tecnologie digitali. E qui si apre in grande capitolo, interessante per i sociologi: quello delle generazioni. Forse non serve aggiungere altro, ma un certo numero di persone ormai da per scontato che la comunità la costruisci anche con tecnologie digitali, che le connessioni vanno alimentate anche con supporti tecnologici. Io stesso ho intensificato relazioni con persone lontane che vedo attraverso videochiamate. Una volta era più difficile. Mi sento più vicino a loro, direi che abbiamo costruito una comunità. Ma la nostra è una comunità di senso, che si riconosce e rinvia anche ad altri momenti oltre le videochiamate, momento che sentiamo nostri. Quindi stiamo sperimentando un’integrazione fra vecchio e nuovo modo di intendere la comunità. Che sono accomunati dalla condivisione di senso.
 
Ci sono rischi di isolamento sociale a causa dell’uso eccessivo della tecnologia?
 
Decisamente sì. Da anni sto studiano il mondo del lavoro e anche recentemente abbiamo sempre più riscontri che le nuove forme organizzative del lavoro (pensiamo allo smart working) possono generare un pericolo di isolamento. Le ricerche ci dicono che i lavoratori se vedono alcune soluzioni organizzative più in grado di favorire la conciliazione fra lavoro e vita, dall’altro vedono proprio un pericolo di isolamento, legato alla perdita di relazione diretta, di condivisione, di momenti ludici importanti e solidaristici importanti sul lavoro praticabili sono con la presenza diretta. La diluizione dei confini fra lavoro e vita è in atto da tempo e soprattutto per alcuni lavori questo ormai è un tratto distintivo del modello organizzativo. Questo genera effetti positivi su alcuni aspetti di conciliazione, ma al contempo anche effetti negatici per l’invadenza e l’isolamento. Penso che il momento di condivisione sul lavoro sia fondamentale, per creare condizioni di piacevolezza del lavoro e anche per generare risorse di aiuto alle persone. Ma anche per apprendere da esperienze condivise.

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Come immagina che saranno le relazioni sociali nel contesto della Società 5.0 tra vent’anni?
 
Difficile fare previsioni. Forse nel campo della futurologia sono più bravi altri, rispetto ai sociologi. Le relazioni sociali sono e saranno ridisegnate dalla tecnologia e l’integrazione fra varie modalità relazionali sarà ormai un dato acquisito. Scopriremo o forse riscopriremo il contatto diretto. Come ce le spieghiamo le migliaia di giovani che sotto il caldo infernale di queste ore si spostano per un concerto e stanno per ore in migliaia dentro uno stadio? Sicuramente per poter dire “sono stato parte di un evento,” ma anche per dire “siamo stati parte di un evento”. Per loro sensato. Immagino una società con tanti contatti, facilitati dalle tecnologie, ma anche un impegno a trasformali in relazioni.
 
Quali passi possiamo compiere oggi per garantire che le future generazioni vivano in una società coesa e solidale?
 
Dovremmo occuparci della traduzione dei contatti in relazioni e quindi primariamente di “educazione tecnologica” (magari dedicando anche un po’ di ore all’educazione civica, e all’educazione allo stare assieme rispettosamente). Sicuramente anche definire regole che mettano le persone al riparo dalle distorsioni tecnologiche (controllo sulle vite, esclusione dai processi sociali, inclusione forzata in altri processi, ecc.). Dovremmo educare a un approccio critico alle tecnologie, a capire le potenzialità rispetto a un disegno di autodeterminazione della persona (che, per quel che riguarda il lavoro, ci rimanda ai modelli organizzativi e alle possibilità di qualità della vita lavorativa, per stare ai miei “oggetti” di studio). La coesione e la solidarietà, così come diversamente le disuguaglianze, non nascono nel nulla, sono un prodotto sociale, di scelte individuali e collettive. La formazione è una strada da percorrere, ma anche il rafforzamento dei diritti a tutela delle persone.

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