Generare valore con la sostenibilità

15-08-2024 | News

Le politiche green non sono una tassa da pagare, ma al contrario un investimento che genera profitto

Di Giulio Boccaletti, Direttore Scientifico del Centro Euro-Mediterraneo sui Cambiamenti Climatici e Docente di Strategia e Sostenibilità all’Università di Oxford

Sono sempre di più le compagnie che riportano i propri risultati in termini non solo finanziari, ma anche di sostenibilità. I mercati se lo aspettano e gli analisti ci guardano. Quasi tutte le organizzazioni internazionali, poi, da quelle non governative alle agenzie delle Nazioni Unite, misurano il proprio impatto con gli indicatori dell’Agenda 2030, il principale sistema di documentazione dei nostri progressi collettivi su questi temi.
In alcuni ambiti, però, continua a esserci resistenza nel considerare la sostenibilità come una questione fondamentalmente strategica. Alcuni credono che si tratti semplicemente di comunicazione o compliance, obiettivi ortogonali a quelli di profitto aziendale. Altri temono che il loro perseguimento sia addirittura controproducente, un costo aggiuntivo con benefici sociali difficilmente monetizzabili. Tutto ciò rivela un’incomprensione di fondo.
La crescita economica alla quale contribuisce tutto il mondo produttivo moderno è un fenomeno del XX secolo. La Seconda Rivoluzione industriale, l’emancipazione di massa e l’esplosione demografica hanno fatto del miglioramento diffuso delle condizioni materiali un obiettivo politico universale.

Diverse team, middle-aged Asian businessman, Caucasian young businesswoman, Muslim hijab-wearing

Tuttavia, ci è voluto tempo affinché la crescita diventasse anche un tema di politica economica. La fine della Seconda Guerra mondiale e la nascita di dozzine di Paesi ex coloniali, indipendenti e desiderosi di arricchirsi, fece della crescita di lungo periodo un obiettivo economico universale. E gli economisti si posero il problema di come incoraggiarla.
La crescita arrivò: basti pensare alla trasformazione della Corea del Sud durante l’era di Park Chung-hee o il miracolo economico italiano.
Ciò che, però, divenne subito evidente è che questa crescita produceva danni collaterali. Le risorse naturali dalle quali l’economia estraeva valore sostenevano un costo non contabilizzato, un’esternalità, che rischiava di minare alle fondamenta la crescita sociale. Che fare? Erano gli Anni 70. La crisi petrolifera e le carestie a essa collegate (anche se dovute a fenomeni contingenti) diedero forma plastica a queste preoccupazioni. Una risposta la diede il Club di Roma, fondato dall’industrialista Aurelio Peccei, che sposò il neo-malthusianesimo: l’evidente limitatezza della Terra non poteva che restringere le nostre aspirazioni di crescita.
Negli Anni 80, si cercò una sintesi tra le preoccupazioni ambientali e le aspirazioni di sviluppo. Il risultato fu il rapporto Il futuro di tutti noi del 1987, prodotto dalla Commissione Brundtland delle Nazioni unite. Brundtland definì lo ‘sviluppo sostenibile’ come quello che risponde ai bisogni del presente, senza compromettere la capacità di future generazioni di soddisfare i propri bisogni.
Da questa spinta nacque, nel 1992, il primo summit sulla Terra delle Nazioni unite, dove furono siglati gli accordi quadro sul clima, sulla biodiversità e sulla desertificazione che, oggi, sono l’architettura internazionale sulla quale si costruiscono iniziative di politica industriale improntate alla sostenibilità, come Next generation Eu e, da ultimo, il Pnrr.
Nel 1995, l’economista Kenneth Arrow formalizzò l’ipotesi che ci fosse una relazione a forma di ‘U invertita’, tra danni ambientali e reddito pro-capite. L’idea era che i Paesi partissero poveri e con un basso impatto ambientale, attraversando poi un periodo di crescita economica che danneggiava l’ambiente.
Recuperare l’ambiente, però, non richiedeva un ritorno alla povertà perché, oltre un certo livello, l’aumento di ricchezza portava con sé un’attenzione per le condizioni materiali e gli strumenti per migliorarle, riducendo l’impatto ambientale.
La discussione accademica su queste curve continua. La ragione profonda per la quale i mercati fanno attenzione alla sostenibilità è il sempre più radicato convincimento che la crescita economica è, sì, causa di problemi ambientali, ma può anche esserne la principale soluzione, a patto che sia indirizzata in modo corretto.
Per esempio, è evidente che la soluzione al problema del cambiamento climatico sia l’elettrificazione dell’economia e lo sviluppo di tecnologie alternative di produzione, stoccaggio e trasporto dell’energia, dalle rinnovabili alle batterie e all’idrogeno. Parlare di queste trasformazioni industriali ispirate alla sostenibilità come di un costo sull’economia reale, come a volte si fa, significa non averne compreso la forza propulsiva. Sarebbe come considerare l’introduzione del modello T della Ford nel 1908 come un inutile costo, perché rischia di ridurre le vendite di cavalli e calessi.
La sostenibilità non è altro che una particolare modalità di creazione di valore, adeguata ai bisogni dominanti della contemporaneità. Con tutta probabilità, essa sta al XXI secolo come la seconda rivoluzione industriale stava al XX. Capirne le implicazioni non è un problema di compliance, ma una delle sfide strategiche più importanti del nostro tempo.

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